Piccolo è bello: quando le dimensioni ridotte del birrificio sono un’arma vincente

In linea di massima siamo tutto d’accordo: piccolo è bello. Ma la domanda che in questa sede ci vogliamo porre riguarda il dimensionamento corretto di un birrificio. Ovviamente non esiste una risposta assoluta, dipende da molti fattori come la presenza o meno di una tap-room, la gestione dei costi fissi, la comunicazione e il marketing, la capacità commerciale e la scelta del mercato di riferimento, la possibilità, sia in termini di spazio che finanziaria, di correggere il tiro in caso di cambiamenti di rotta dettati da motivazioni interne piuttosto che esterne, oltre ad una buona conoscenza del mercato e delle sue peculiarità.

Negli ultimi anni si era già notato come alcuni birrifici avessero rallentato di molto la crescita, cercando di stabilizzarsi su volumi più bassi di precedenti analisi. Crescendo si possono abbattere alcuni costi, si possono ottimizzare i costi energetici ma non è detto che questo avvenga con piccoli incrementi, anzi. Un freno poi l’ha dato il mercato, che ha iniziato a dare segnali di saturazioni già quattro o cinque anni fa: nonostante l’apertura di molti pub specializzati, l’aumento di birrifici ne ha rapidamente vanificato l’effetto benefico e la rotazione sfrenata dei prodotti alle spine dei locali ha fatto il resto. Da un lato molti birrifici hanno ovviato aprendo i loro locali diretti, tap room all’interno della struttura produttiva e talvolta anche all’esterno del birrificio. In altri casi si è cominciato a ragionare, una volta entrata in vigore l’agevolazione delle accise, se avesse senso e con quali numeri, andare oltre i 10.000 ettolitri. Questo perlomeno per i pochi che si trovavano vicini a quella soglia. In generale nessuno ha più fatto grandi investimenti in nuove strutture se non strettamente costretti, decidendo invece di investire sull’ottimizzazione di ciò che già possedevano. Con una rapida indagine tra i birrifici si evince che molti in questi mesi stanno ricalibrando i piani per il futuro: le novità più prossime affondano la programmazione al massimo a febbraio, per il resto si nota una generale flessione nelle previsioni di crescita per il futuro. Per quelli che ancora non ce l’hanno si studia l’apertura di tap room o pub, ripiegando sui vantaggi che la mescita diretta garantisce.

Col senno di poi è facile, ovviamente, ma oggi praticamente tutti, se dovessero partire da zero, farebbero scelte differenti, puntando sul confezionamento tanto in fusto quanto in bottiglia o lattina (dipende dalla preponderanza delle referenze prodotte) e cercando uno stabilimento che permetta di ritagliare uno spazio per spaccio e mescita. In questo caso il dimensionamento sulla carta può diminuire di parecchio, e anche se stare sotto i 250 ettolitri in teoria è proibitivo, già una produzione tra i 350-400 ettolitri (di birra venduta) all’anno permette con una buona gestione di lavorare bene.

Il controllo di qualità e la costanza devono essere il vero punto di attenzione, anche nel caso di piccole dimensioni, e richiedono investimenti iniziali importanti (ossimetro, microscopio e altri oggetti e macchinari per allestire il laboratorio di analisi interna) ma anche costi operativi costanti: usare CO2 (o altri gas) anziché una pompa per trasferire è decisamente più costoso. Questi sono punti fondamentali per chi spedisce le birre e ne perde il controllo diretto. Vero è che un assorbimento importante della birra nella tap room o nel locale di proprietà garantisce una rotazione veloce e quindi sopperisce a molte “magagne” che possono emergere con una shelf life più lunga in bottiglia. Non dimentichiamoci poi che esiste un mercato silenzioso, che è immune a mode e infatuazioni social, un mercato composto da un bevitore che non cerca la novità a ogni sorso ma gradisce bere costantemente le birre che gli sono piaciute e che permette di raggiungere numero anche importanti di vendite.

Un controllo di qualità serio si impone anche a tutti quei birrifici che sono passati o che stanno passando al confezionamento in lattina. La lattina non concede margini di errore, come si sono resi conto i molti birrai che hanno provato questo contenitore, occorre essere pressoché perfetti in tutte le fasi di produzione. Per cui oltre all’ingente costo per acquistare un’efficiente macchina riempitrice, occorre pensare anche a investimenti su tutti gli altri aspetti e al rischio di faticare coi primi lotti. In pochi erano davvero pronti alla lattina mentre in tanti si sono trovati alle prese con ossidazioni fuori controllo, carbonazioni insufficienti o eccessive e altre problematiche varie.

Fatta questa premessa analizziamo i numeri “reali”: in Italia la produzione media è di circa 600 ettolitri annui. Girando per l’Italia di scopre però che molti, la maggioranza, si attestano verso soglie produttive ben più basse. È il solito discorso sulla parcellizzazione della produzione di birra in Italia: anziché una crescita in volumi di birra dei birrifici esistenti si è assistito alla moltiplicazione del numero dei birrifici stessi. Troppi o non troppi, giusto o sbagliato la situazione è questa e, contrariamente a studi, business plan, prospetti di crescita, una miriade di birrifici apre e sopravvive producendo circa 200 ettolitri.

Ma come è possibile stare in piedi con questi volumi? Per queste aziende la conduzione è solitamente famigliare, nessun dipendente quindi (elemento che incide positivamente molto), solo soci lavoratori. I primi anni sono cruciali. La scelta del posto dove iniziare l’attività è fondamentale, e quando possibile si cerca di sfruttare immobili di proprietà, grazie a un’eredità o a un’ala di casa non utilizzata. Impianto piccolo, manuale o al massimo semi automatico, comunque investimenti che non richiedano di svenarsi o indebitarsi per le prossime generazioni. Occorre poi ricavarsi – costruirsi e consolidare – un mercato locale, meglio ancora se attraverso un piccolo pub gestito direttamente dal birrificio stesso dove fidelizzare e far crescere la clientela, per poi trovarsi all’esterno qualche altra birreria, anche poche, ma costanti nei consumi. Spesso nei primi anni, mentre si pagano i vari investimenti, l’attività non genera profitti, quindi occorre avere altre entrate e il birrificio viene gestito la sera, nei fine settimana, nei ritagli di tempo. Una volta che i leasing e i finanziamenti vari sono pagati – o quanto meno quando si inizia a vedere una certa stabilità finanziaria – il titolare può dedicarsi interamente al birrificio. I margini sono sempre abbastanza bassi ma è nell’evidenza dei fatti che queste imprese, sostenute da passione e da grandi lavoratori, esistono, un po’ ovunque lungo la penisola. Col tempo si impara anche ad ottimizzare le spese e la gestione del tempo, scegliere meglio i fornitori, ci si può permettere qualche dipendente part time o a chiamata per l’imbottigliamento. Nei primi tempi, per farsi conoscere, sono spesso fondamentali gli appuntamenti locali, dai mercatini alle sagre; si può anche pensare di sfruttare altri canali di vendita ma sempre gestiti direttamente – un eventuale distributore sarebbe troppo costoso e potrebbe richiedere numeri e investimenti non sostenibili o, peggio, lasciare il fornitore coi debiti – e dedicarsi al miglioramento della produzione. Il tessuto economico nazionale è ricco di microaziende, di piccole aziende, sostenute dai soci col proprio lavoro e dai loro investimenti, e il comparto dei birrifici artigianali non poteva esimersi. Non diventeranno ricchi i protagonisti di queste realtà, ma si manterranno dignitosamente e di tanto in tanto potranno anche permettersi qualche sfizio e qualche nuovo investimento. Non avranno la riempitrice di lattine, né la centrifuga, ma non avendo un mercato nazionale non ne hanno nemmeno bisogno. In compenso sono molto più veloci nel cambiare rotta se necessario. Senza considerare poi che piccole aziende accumulano, nei periodi peggiori, piccoli debiti, più facilmente ripagabili appena la situazione si stabilizza.

Questi micro birrifici (o micro brew pub) dimostrano anche che la corsa agli armamenti, cioè la crescita continua alla ricerca di un break even che si allontana sempre più, alla possibilità di produrre a prezzi stracciati che poi si rivela utopistica, passando per cambi di capannone, crescita della cantina, nuovi impianti e ancora nuova cantina, è abbastanza inutile, e se non porta alla vendita a una multinazionale, rischia di portare al fallimento o a un esaurimento nervoso. Sono queste piccole attività che mettono in evidenza come il mercato ha molti più spazi di quello che pensiamo, basta andare a prenderseli con pazienza e capacità, ricordandoci che il cliente finale si innamora di una o comunque poche referenze e apprezza il poterle bere costantemente. Solo una nicchia cerca continuamente la novità, l’hype, la rotazione delle spine.

Entro la fine dell’anno si faranno le valutazioni finali sul lock-down e sui suoi strascichi e si vedrà chi ha saputo fare bene conti e chi no, e non è detto che siano i piccoli a trovarsi in grandi difficoltà: abituati a stare “in trincea” con volumi ridotti da gestire e da vendere per stare in piedi, potrebbero stupire ancora e andare oltre alle logiche di sostenibilità. Non solo, ma visti i numeri, non saranno soltanto un’eccezione che conferma la regola.