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Oltre gli hamburger c’è di più: crescono i locali che uniscono birra artigianale e cucina di qualità

Se c’è un aspetto che più di altri, nella cornice di un anno già tetro, ha pesato sul comparto birrario artigianale italiano e sul suo modo di relazionarsi al quadro pandemico, è la percezione del prodotto-birra artigianale, da sempre relegato a modelli di consumo squisitamente serali. Durante il primo lockdown gli effetti dell’arresto dei locali hanno obbligato chi desiderava consumare buona birra ad acquistarla a domicilio, online, o direttamente; garantendo seppur in modo provvisorio e a regime di volumi decimati la sopravvivenza di birrifici, locali organizzati per il delivery e distributori. Stop. 

Nettamente diversa la situazione verificatasi in fase 2, durante la quale gli esercizi di ristorazione cui core business sia la somministrazione di pasti hanno potuto avvalersi quantomeno del servizio del pranzo, mentre beer bar, pub e tutto l’insieme dei locali più squisitamente dedicati al bere si sono trovati improvvisamente paralizzati dalle mutate condizioni in cui versava il pubblico. La bevuta al pub, pensata dagli italiani in funzione quasi esclusivamente pre-notturna quando non propriamente notturna, si è trovata improvvisamente orfana della sua fascia oraria di elezione; mentre gli avventori usuali, autorizzati a frequentare banconi e tavoli solo fino alle 18, optavano più spesso per un pranzo in trattoria e un calice di vino, che per una pinta in orario lavorativo. 

La reazione, per il comparto italiano che opera nel settore della vendita di birra artigianale al dettaglio, si è sostanzialmente articolata su due principali filoni d’azione: da una parte impegnandosi in un tentativo disperato di riconvertire le abitudini di consumo birrario del pubblico, forzandone il riadattamento ai nuovi orari tramite espedienti commerciali di happy hour anticipati, scontistiche apposite e simili; dall’altro cercando di reinventarsi in chiave diurna attraverso la legittimazione della birra come parte integrante di un pasto, di un’esperienza gastronomica tout court. La sfida, in questo senso, è consistita nel divincolare la bevuta di birra dal cliché radicato nella mente del bevitore: quello che vorrebbe pinte su pinte consumate al bancone, accompagnate solo da una manciata di arachidi e sigarette, e chiacchiere coi vicini di posto. Questo genere di iconografia, certo poetico ma poco funzionale rispetto alle sopraggiunte condizioni orarie, per molti locali ha dovuto giocoforza essere sostituito con più concrete e sostanziose proposte di abbinamento in cibo, che legittimassero agli occhi della virtuosissima società italiana uno scandaloso pellegrinaggio al pub sotto la luce del sole. In altre parole, per molti locali il semi-lockdown della fase 2 ha coinciso con un’improvvisa presa di coscienza del valore gastronomico della birra artigianale; e con la consapevolezza che per progredire in tema di ampliamento del pubblico e penetrazione bisognasse agire per incastonare la nostra bevanda preferita, una volta per tutte, a perno di una più complessa e concreta proposta culinaria.

Il campionario impiegato dai pub per convincere i clienti che una buona birra si potesse bere anche a pranzo, quantomeno se accompagnata da qualche piatto di resistenza, è stato dei più vari: c’è chi, forte di un menu già ampio e ben studiato, non ha dovuto che rimodulare leggermente le frecce al suo arco ed adattarle al regime di coprifuoco, chi invece da che non cucinava si è improvvisato oste, con alterni risultati, chi infine ha virato da una proposta di cucina squisitamente serale/junk a un menu composto da piatti più semplici da pensare e digerire per chi dovesse, dopo la pausa, rimettere la testa china su computer e tastiere. Sono nati brunch, colazioni americane, pranzi della Domenica con abbinamento, collaborazioni con ristoranti patinati e pop-up con chef, sinergie tra locali in cui si va a bere ed altri in cui mangiare: se non fosse per le ragioni che hanno scatenato l’ambaradan, deprimenti, si direbbe ci sia stato un bel fermento. Un fermento che però ha fatto luce su un tallone d’Achille del comparto craft italiano, e cioè su quanto il potenziale della ristorazione legata alla birra sia in gran parte inespresso, con possibilità di sviluppo inaudite che porterebbero giovamento sia alle attività di somministrazione in sé, sia generalmente alla penetrazione del prodotto-birra artigianale presso nicchie di consumatori che non ne siano fruitori abituali.

Pensiamo a quanto cambierebbe la percezione del nostro piccolo mondo di adepti del craft presso chi non ne fa direttamente parte, se ogni ristorante, pizzeria, bar che si pregia di lavorare con prodotti di eccellenza offrisse, al pari di quanto fa coi vini e con gli ingredienti impiegati in cucina, una piccola selezione di birre degna di questo nome; pensate a cosa succederebbe se nei ristoranti stellati si trovassero lambic d’annata e ottime pils e saison del territorio anziché macro-lager e improbabili proposte crafty legate a marchi industriali, per non parlare delle migliori pizzerie d’Italia, e a quanto si riqualificherebbero (e a quanto riqualificherebbero il nostro settore, agli occhi di chi la birra artigianale non vuole neanche sentirla nominare) se decidessero in massa di sganciarsi dall’idea di “margherita e bionda media” per approcciare una visione della qualità olistica che passa, oltre che dal piatto, attraverso ciò che versano nel bicchiere dei clienti. Al contempo, pensiamo anche all’inverso: quante occasioni avrebbero i pub di birra artigianale, in media, se decidessero di ampliare la propria offerta culinaria, di specializzarsi, di portare avanti una ricerca continua e sensata divincolata dai cliché del “pub food” inteso come riempistomaco di bassa lega, di fare della conoscenza profonda del prodotto che lavorano, e della sua cultura, un tassello integrante dell’idea di cibo che intendono proporre? Quanto si amplierebbe la platea potenziale di clienti, estendendosi al di là di quella dei beer aficionados, per un locale che decidesse di sostituire il suo menu fatto di hamburger standard approvvigionati da distributori Ho.Re.Ca. e cash&carry con una carta forse più ristretta, meno modaiola, ma più sentita e ricercata, magari legata al territorio e alle stagioni? Quanto potrebbe essere importante, insomma, per un pub proporsi con un’identità culinaria più complessa rispetto a quella del pub come lo immaginiamo convenzionalmente?

Fortunatamente gli esempi virtuosi di chi ha deciso di proporsi sul mercato come entità gastronomica completa, rifiutando di trincerarsi dietro la categorizzazione di locale esclusivamente birrario trascurando il cibo – o viceversa – non mancano. In particolare, è possibile evidenziare precise tendenze di “reazione gastronomica” sullo scenario birrario artigianale in Italia: prima tra tutte, quella che ha portato alcuni pub a trasformarsi in veri e propri bistrot, quando non proprio ristoranti d’avanguardia, estendendo la propria innata fedeltà alla qualità maturata in materia zimurgica a tutte le declinazioni proposte in tema di cibo. Via quindi alla ricerca di fornitori eccellenti e indipendenti per le materie prime, all’avvocatura del territorio, allo studio della tradizione che diventa creatività ad alto quoziente di nerdismo tecnico in cucina.

Un esempio lampante è quello dell’Arrogant Pub di Reggio Emilia; protagonista in questo periodo di una straordinaria epopea gastronomica che lo porta a indagare preparazioni e prodotti rari dell’Appennino Emiliano, applicando alle proposte in carta un’esplorazione alla ricerca dell’ingrediente perfetto che comincia a centimetri zero, e lavora le sue bestie nose-to-tail. Un approccio che si concretizza ai fornelli, traducendosi in ricette pensate con osservanza del bagaglio culturale reggiano ed occhio creativo, che si spingono ogni volta sempre un passo più lontane dal semplice hamburger.

Si potrebbe parlare, se guardiamo ai locali di birra che tendono a diventare ristoranti, anche del nuovo Treefolk’s Public House di Viale Trastevere a Roma, della scelta coraggiosa di divincolare la propria proposta gastronomica dalle maglie precostituite che l’iconografia da british pub imporrebbe per consegnarla al fine dining e alle mani dello chef Valerio Mattaccini, così come si potrebbe discutere dell’opzione “venatoria” e dei curati menu di bosco e cacciagione adottati da Brado, sempre a Roma, o dell’instancabile e trasformistica inventiva culinaria di Daniele Bertelli e del suo Diorama, che a Firenze si dimostrano in grado di passare con disinvoltura dal lampredotto al ramen. Si pensi ancora, sempre rimanendo in quota gastronomica “orientale”, all’Hops Beerstrò di Trieste e della sua tendenza a miscelare culto della freschezza, American BBQ, bao e piatti al wok in un modello fusion che cela, dietro la veste hype, una sostanzialità di caratura notevole. 

Se però da una parte la tendenza ad espandere l’offerta culinaria fino a divenire veri e propri ristoranti è una delle strategie possibili per coinvolgere nel mondo-pub anche una clientela non strettamente legata alla birra, c’è chi opera in maniera apparentemente antitetica: è il caso dei locali birrari specializzati che, pur scegliendo di non trascendere un menu tipicamente da pub fatto di hamburger, fritti e taglieri, hanno deciso di nobilitare la propria proposta applicandovi le medesime attenzioni in termini di selezione delle materie prime e procedimenti di cucina di cui sopra, trasformando il pub in un gastro-pub. Si pensi al lavoro di lucidatura compiuto su hamburger e simili dal Lambiczoon, forse prima realtà in Italia a rivolgersi a una nicchia gourmet ultraspecializzata tanto sul fronte cibo che per la tipologia di selezione birraria adottata, o dai locali della famiglia Drunken Duck a Vicenza; o ancora all’antesignano Baladin che, nei suoi Open, ma già con primato assoluto nel pub di Piozzo, sforna da quasi trent’anni Giottoburger e stinchi. Infine, per capire quanto possa essere rilevante un’offerta gastronomica giusta per raggiungere un pubblico più ampio e diverso, citiamo il Bark di Daniel D’Alù, che nella profonda Calabria ionica propone American BBQ slow-smoked di altissima taratura, da animali di allevamento locale, in abbinamento a una selezione birraria di livello.

Terza casistica di evoluzione gastronomica dei locali del mondo artigianale è quella che consacra uno dei matrimoni più radicati nell’immaginario alimentare italiano: quello tra pizza e birra. Questo filone gode della duplice evoluzione, avvenuta in termini recenti, sia del comparto artigianale che di un mondo pizza sempre più prestigioso e patinato. Sono nati negli anni locali di assoluto rilievo sul panorama nazionale e internazionale come Seu Pizza Illuminati a Roma, la Piccola Piedigrotta di Reggio Emilia, Lo Scugnizzo ad Arezzo e molti altri, che sono in grado di proporre con perizia ed impianti propri un buon assortimento di produzioni artigianali. Ci sono poi quei locali che nascono già, sin dall’ideazione, votati alla doppia funzione di grande pizzeria e grande birreria; puntando a realizzare il massimo in entrambi i settori, eleggendoli a coprotagonisti assoluti dell’attività. Ci riferiamo a realtà come Sbanco di Marco Pucciotti, che a una pizzeria super sotto ogni punto di vista, curata da Stefano “Mr. Trapizzino” Callegari, affianca sin dagli esordi un tank bar con venti e più vie artigianali italiane alla spina; così come allo Storie DiPinte guidato a Bologna da Francesco Oppido, o all’Elementare di Trastevere, più recente incarnazione dello storico Bir&Fud di Roma.

Ci sono poi esempi innovativi come Mogano, il ristorante del birrificio Ritual Lab, nato esplicitamente con l’intento di coniugare cucina di alto livello e birra artigianale. A Formello (Roma), negli spazi del birrificio, è recentemente partito un ambizioso progetto di ristorazione capitanato da Matteo Faenza, fratello di Giovanni e Valerio, entrambi volti conosciuti del marchio laziale. Un format nuovo per l’Italia in cui birra e alta cucina si fondono per creare un’esperienza gustativa di alto profilo. 

Riesaminando gli sforzi intrapresi a livello gastronomico dai locali birrari di casa nostra, possiamo individuare, ad oggi, tre filoni principali: pizza, hamburger, cucina italiana. Tiriamo una riga: cosa si potrebbe fare di più? Sicuramente c’è spazio per una contaminazione con le cucine dal mondo, per una maggiore presenza della birra artigianale all’interno del segmento della ristorazione generalista, anche con prodotti ad hoc e accordi commerciali di categoria o sviluppati da gruppi di birrifici, di modo che sia possibile, dalla trattoria al ristorante stellato, trovare da bere qualcosa di meglio di una macro lager (o, ancora peggio, di uno squallido plagio crafty).

Speriamo infine che chi ancora, tra i locali birrari con cucina, non ha sviluppato un’identità gastronomica definita possa lavorare al meglio sulla propria offerta, magari superando i menzionati cliché, e che il livello medio della cucina da pub cresca esponenzialmente, affinché siano sempre più i locali in cui birra artigianale e cibo possano interagire tra loro in un connubio che restituisca come risultato, sia per il cliente che per l’esercente, un ammontare superiore alla somma delle parti.