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Nella botte dei tempi: in viaggio nei secoli tra legno e birra

La birra, il legno, le ossidazioni, il passato, il presente. Potrebbe funzionare come schema di estrema sintesi di un racconto o, anche della sceneggiatura originale, destinata a una storia da raccontare in video. Un’ossatura che, della vicenda, contiene (quasi ne fosse la ricetta) gli ingredienti fondamentali: i protagonisti ovvero birra e legno; la natura del loro rapporto, cioè quella di un processo ossidativo; i termini temporali di svolgimento della trama: l’oggi e uno ieri dai contorni tanto ampi e sfumati da assumere tranquillamente le fattezze di un l’altroieri.

 

E allora tuffiamoci nello svolgimento di questo percorso, facendolo, per cominciare, con uno slancio di leggerezza, ovvero chiarendo un aspetto meritevole di essere messo in luce, un aspetto serio, ma con parole non seriose. Capitolo primo: chi denigri le esperienze di maturazione in fusto bollandole come ennesima moda del momento – e magari insinuando pure una sorta di plagio a danno di altri e ben diversi diritti d’autore (in materia di utilizzo di botti e botticelle) – sta incappando in un abbaglio epocale, favorendo la deriva del pastrocchio storiografico. Per un motivo molto semplice. Perché dopo l’impiego prevalente del coccio (nell’antichità) e prima dell’avvento in forze (su scala industriale) dei metalli, in particolare dell’acciaio inox – quindi per un arco lungo secoli – il legno è stato il materiale in cui sostanzialmente tutti gli alcolici hanno trovato la loro naturale placenta e per tutte le fasi della rispettiva gestazione: fermentazione, conservazione a breve termine, maturazione, non di rado anche somministrazione. Ergo, quello con il barile è non tanto un avvicinamento, bensì un riavvicinamento. Non un amore estemporaneo ma un ritorno di fiamma. Del resto, l’affinamento in barrique (o in capienze maggiori) dei Lambic non è se non la testimonianza di una pratica che lega l’attualità a una tradizione, appunto, millenaria. L’evidenza, se si preferisce, di un metodo mantenutosi in gran parte inalterato nel corso del tempo, a partire dalla propria messa in pristino.

Bene, a questo punto entriamo nel merito specifico di questa narrazione: la permanenza in legno a fini non di acidificazione, ma di ossidazione. Ora, a questo bivio – o, meglio, alla precisa cognizione di questo bivio, con le sue implicazioni e distinzioni – è evidente che si arrivi in tempi non immediati, perché, inizialmente, l’obiettivo è uno soltanto, ovvero quello della conservazione del prodotto, a prescindere dalle sterzate che quest’ultimo avrebbe preso. E in tal senso l’acidificazione (vedi il caso delle Saison originarie, oggi recuperate sotto la dicitura Farmhouse) era vissuta come evoluzione possibile di una tecnica conservativa (in effetti l’addomesticamento dei lattobacilli quale strumento utile alla prevenzione di altre betterizzazioni, magari patogene, è una delle forme di mantenimento del cibo più precocemente intuite e sistematicamente attuate).

C’è dunque da chiedersi quando e dove tale biforcazione – ossidazione da una parte, acidificazione dall’altra – si configura e viene percepito come tale. In mancanza di fonti assolutamente certe, vengono in aiuto agli storici la tecnologia alimentare e la logica. La prima suggerisce alcuni elementi. Uno: il fusto nuovo – intonso, di primo passaggio – cede in maggioranza sostanze chimiche proprie (vanillina, aldeide cinnamica, pirazine della tostatura, resine varietali) e accoglie ossigeno attraverso la permeabilità delle proprie fibre; mentre il fusto già usato si presta a minori cessioni dirette e a funzionare, invece, quale incubatore di microrganismi inclini a installarsi e a trovare dimora entro le porosità del legno stesso. Secondo: la batterizzazione di una sostanza aggredibile, per portare a pieno compimento le proprie conseguenze, ha bisogno di tempo. Ciò detto, la logica propone le sue considerazioni. Premesso che, nel corso di tutto il medioevo (e anche parecchio oltre), la birra entra nella botticella di stazionamento già parzialmente batterizzata, al di là di questo è abbastanza chiaro che i diversi effetti della permanenza in ambiente ligneo devono essersi manifestati in una cantina capace di ospitare fusti in discreta quantità, parte dei quali destinati a una sosta anche considerevole, in termini di durata. Ora, prendendola per attendibile, tale premessa esclude quasi del tutto una fattispecie: quella della produzione domestica (nelle case del nord Europa si brassa a ciclo continuo, per un consumo veloce, se non proprio istantaneo); e induce ragionevolmente a limitare il ruolo svolto dalle riserve alcoliche di quello o l’altro nobile feudale, consistendo esse in larga maggioranza (se non totalmente) di botti di vino, identificato quale bevanda di più elevato rango.

Al contrario, in ordine alla presenza di condizioni propizie a far affiorare una chiara percezione delle due possibili direzioni (l’ossidativa e l’acidificativa) degli invecchiamenti, una probabile funzione di laboratorio spetta sia alle celle fresche delle aziende agricole (padronali o comunitarie), in cui si stoccano, per almeno tre mesi, appunto le già citate Saison bevute in estate dai lavoratori stagionali; sia alle dispense dei monasteri, nelle quali i religiosi sistemano birre di vario ordine e grado, come la tertia (oggi Enkel), la secunda (alias Dubbel) e la prima melior (ovvero la Tripel) in senso alcolico ascendente. Una griglia di archeotipologie le cui espressioni di maggiore gradazione venivano servite su tavole apparecchiate solo in occasioni particolari, quindi meno frequentemente, con conseguente allungamento dei tempi di permanenza in fusto.

Ci sono poi almeno altri due parametri che hanno inciso sul determinarsi del bivio procedurale di cui stiamo parlando: la vivacità, in un determinato contesto geografico, delle popolazioni microrganiche, e la presenza, nell’arsenale fisiologico della birra avviata al soggiorno in legno, di elementi tali da poter valorizzare la mano del tempo e capaci, per un altro verso, di arginare derive di carattere contaminativo. Ebbene, soffermandoci sui requisiti specifici del prodotto invecchiato, non possiamo non notare come, tra le caratteristiche favorevoli a rendere positive eventuali e ricercate sensazioni ossidative come quelle maderizzate, troviamo: una piattaforma di malti a prevalenza scuri, una solida dorsale acida di base e una robusta alcolicità, fattori, gli ultimi due, utili anche a meglio reggere l’assalto di eventuali batterizzazioni.

Così, nel corso dei secoli, si configura – rispetto alle due possibili utilizzazioni del legno quale ambiente di definizione del profilo sensoriale di una birra – anche una diversificazione di carattere territoriale e tipologico. In Germania, le basse gradazioni di frumento come Berliner Weisse, Gose, Lichtenhainer si qualificano per il profilo Sour, storicamente legato a un passato da fermentazioni spontanee; mentre funzioni di arrotondamento sono quelle che si chiedono alle botti di maturazione delle Doppelbock prodotte, inizialmente, dai frati paolani residenti (dal 1627) nel convento di Neudeck ob der Au (a Monaco), e poi successivamente in un po’ tutta la Baviera.

E mentre in Belgio pare prevalente (nel solco Lambic e Farmhouse: quello in cui si muovono alla fine anche le Flemish Red e Brown Ales) l’applicazione dei fusti in ottica di conservazione acidificativa, in Gran Bretagna, invece le evidenze documentali attestano, accanto a questa modalità (ben specificata, fin dai decenni a cavallo tra Sei e Settecento, con l’aggettivo stale), anche quella vòlta a conferire sfumature prevalentemente o esclusivamente morbide e persino liquorose, accreditando anzi, di questa consuetudine, una diffusione alquanto ampia e capillare. Sotto il profilo dei riferimenti più noti in letteratura brassicola, non si può non citare il caso delle Porter e della loro parabola esistenziale, lungo la quale, già nelle battute iniziali (siamo nella prima metà del XVIII secolo), il londinese James Harwood – contitolare del birrificio di famiglia insieme al fratello Ralph (a lungo identificato, dalla vulgata storiografica come l’inventore delle Porter stesse) – pare aver avuto il merito d’intuire come un certo periodo di maturazione potesse giovare ad arrotondare le asperità di quella massa liquida così scura e, ai suoi albori, segnata da tratti amaricanti e aciduli decisamente ficcanti. Tale intuizione viene poi elevata a sistema, e portata a esprimere in sommo grado le proprie ricadute, per merito di Sir Humphrey Parsons, politico nelle file dei Tories, oltre che titolare, sempre a Londra, della Red Lion Brewery (a St. Katharine’s Dock) e perfezionatore di questa tecnica di affinamento prolungato. Una tecnica che, onde levigare ulteriormente le contundenze della Porter primigenia, Parsons fa eseguire in tini di grandi dimensioni. Nel 1736, alla Red Lion, ne installa un’intera linea, composta di unità capaci, ciascuna, di contenere 1.500 barili, pari a 500 botti. Il costo a pezzo è di 536 sterline, ma l’investimento (ingente) è ben ripagato: lo stabilimento, a fine Ottocento, giunge a sfornare qualcosa come 200mila barili, dando lavoro a 200 addetti.

Sempre in Gran Bretagna, la distinzione tra permanenza in fusto a fini di acidificazione o di ossidazione può essere messa in relazione all’attuale, diversa, nozione dei profili sensoriali delle Old Ales e dei Barleywine. Com’è noto storicamente, i secondi rappresentano un segmento delle prime (quello coincidente con le rispettive espressioni più alcoliche). La loro stessa denominazione tipologica non entra in uso se non a fine Ottocento, a seguito del guizzo di un giornalista scientifico, il quale, appunto con questo appellativo, Barleywine, battezza per la prima volta una referenza a forte gradazione – la No 1 firmata dalla Bass di Burton – in un articolo uscito sul British Medical Journal nel gennaio 1870. In precedenza si parla solo di Strong Ale o di Old Ale: epiteti assegnati, già nel Seicento, a prodotti di forte taglia etilica, quindi – in virtù della loro resistenza agli anni e alle aggressioni batteriche – destinati, o destinabili, a riposare anche a lungo prima di essere consumati (da cui la dicitura Old, nel senso di birra vecchia, invecchiata). Ora, quel periodo di riposo, avvenendo in legno, può comunque portare, e porta in effetti, anche a virate di tipo Sour e brettature. Di certo, maggiore è la corazza alcolica, minore è il rischio d’infezioni. E così, oggi, una delle discriminanti tra Old Ale e Barleywine – tipologie posizionate rispettivamente a quota 5,5/9 gradi e a quota 8/12 gradi (stando ai parametri Bjcp) – è che alla prima si assegna ufficialmente la licenza di poter imboccare la strada delle curvature lattiche, citriche e acetiche; mentre i secondi dovrebbero mantenersi entro il perimetro di trattamenti volti alla maderizzazione. Tutto ciò, per essere chiari, va collocato in quell’ottica di codificazione dei disciplinari sensoriali che è alla base della stesura dei volumi di linee stilistiche guida (come appunto quelle delle Styles Guidelines del Bjcp), ma nella pratica corrente, staccionate e recinzioni si fanno decisamente più labili.

 

Articolo apparso su Fermento Birra Magazine