Nazionalismi birrari: perché l’Italia è tra i posti migliori dove bere birra
Il migliore dei mondi possibili. Un’espressione utilizzata oggi con un significato corrispondente a quello di un termine di paragone ideale, accettabile in una dimensione puramente teorica. Un preambolo concettuale, d’accordo, però opportuno al fine di introdurre l’idea attorno a cui ruotano queste righe. Un’idea in base alla quale, per il consumatore di birra appassionato (e proporzionalmente esigente), il nostro Paese sia da considerare non certo il migliore dei mondi possibili in senso assoluto, ma – altrettanto certamente – uno tra i migliori possibili.
Eccessiva indulgenza? Provocazione? Presbiopia nazionalistica? Si accettano tutte le obiezioni (è una tra le intenzioni di questa riflessione); intanto, di seguito, elenchiamo le ragioni in virtù delle quali, a chi scrive, sembra sinceramente che un’affermazione come quella da cui prende le mosse questo argomento sia tutt’altro che campata per aria o priva di logica. Anzi sembra, tale affermazione, così sostanzialmente fondata, da poter ben essere inclusa tra i motivi per i quali, da noi, ci si è innamorati della birra, con grande slancio passionale e, tutto considerato, in davvero pochi anni. Ecco, proprio al fine di fornire una base di giustificazione al nostro punto di vista (incentrato, per ribadirlo in due parole, sulla buona qualità media dell’offerta), abbiamo individuato una serie di parametri sensibili, rispetto ai quali misurare la sua validità.
Il prodotto. A monte di uno scenario nazionale che – come vedremo – presenta, a nostro avviso, non pochi punti positivi di rilievo in ordine agli aspetti della reperibilità e della somministrazione, abbiamo anzitutto l’elemento che, insieme ad altri, rende tale scenario effettivamente possibile: l’esistenza di un sistema di produttori artigianali i cui protagonisti, bruciate in pochi anni le tappe di una crescita qualitativa talmente rapida da risultare sorprendente, sanno portare sul mercato interno referenze di ogni tipo, interpretando, con perizia e brillantezza, canovacci stilistici di qualsiasi matrice geografica e di qualsiasi tradizione.
Uno sviluppo, questo, che permette, lungo lo Stivale, l’accesso all’esperienza d’assaggio di una buona Gose o di una Bock, senza necessariamente dover prendere un volo per la Germania; di una Grodziskie, senza necessariamente recarsi in Polonia; di una Baltic Porter, senza congelarsi in Estonia, Lettonia o Lituania; di una Farmhouse, senza perdersi al confine tra Francia e Belgio; di una Bitter o di una Mild, senza dover mettere mano al passaporto per varcare i confini del Regno Unito.
Peraltro, al di là del fatto che l’amore per certi generi birrari porti a essere indulgenti verso quelle che finiscono per essere definite sbavature rituali, non è affatto una rarità quella per cui, in alcuni quadranti geografici d’origine, le espressioni locali di quegli stessi generi birrari risultino meno curate rispetto a quanto ormai il palato tricolore esiga (e ottenga) dagli artigiani suoi connazionali. Il riferimento è – per esempio – alle Lager boeme (tra le quali, in Repubblica Ceca, le quantità di diacetile percepibile, spesso, sono tutt’altro che sottili venature); o alle poc’anzi citate Bitter britanniche, il cui sorseggio, in Albione, risulta di frequente didattico per incontri ravvicinati del terzo tipo con acetaldeide e altre ossidazioni.
Quello della perizia nell’esecuzione delle ricette, ha finito oltretutto per indirizzare entro un alveo di sensatezza anche un’esperienza che, ai suoi esordi, si è caratterizzata, al contrario, per una corsa al riarmo verso gli eccessi organolettici e per una sorta di elogio del guazzabuglio (tanto più ce n’è, meglio è). Parliamo del filone – ispirato dalla necessità della ricerca di un’identità brassicola italiana – legato all’utilizzo di specialità territoriali, un indirizzo lungo il quale, specie inizialmente, ci si è imbattuti in episodi di sregolatezza: il ricorso a un numero sconfinato di spezie, anche con quantitativi eccessivi, o ancora a ingredienti magari sì estremamente tipici ma non tali da apportare risultati realmente edificanti o qualificanti.
Ecco, rispetto al tema della produzione, si può dire che in pochi anni si è realizzato un piccolo grande miracolo, innescato dall’incontro tra due fattori: un buon gusto tutto italiano; una meditata volontà di progredire sul piano tecnico. E se il primo di tali fattori è talmente impalpabile, difficile da spiegare che finisce di spiegarsi da solo, il secondo merita invece di soffermarvisi per qualche riga, onde poter meglio allargare l’inquadratura su alcuni suoi risvolti specifici. Perché dopo l’insediamento dei cosiddetti pionieri del movimento artigianale nostrano, le generazioni di birrai che – cavalcando l’onda di propagazione di quel gong – si sono da allora succedute, hanno avuto il merito di lasciarsi guidare anche da una tenace e lucida intenzione di migliorarsi, costantemente. Non è bastato, a quelle generazioni, fare bene quanto le precedenti: hanno voluto crescere in formazione specifica (chimica e biochimica ad esempio); in apprendimento di nozioni mediante lettura di testi ad hoc e raccolta di esperienze; in investimento su una prassi di reciproco confronto attraverso la quale il tessuto micro italiano ha vissuto un’evoluzione veloce e profonda. Tanto che, guardandosi indietro e tornando al ricordo di quella che era anche solo (senza troppo risalire indietro nel tempo) la metà del primo decennio dopo il Duemila troviamo i nostri produttori migliorati sotto il profilo dei contenuti tecnologici; della capacità di soluzione (e auto-soluzione) delle problematiche in lavorazione; dell’efficacia nel propagare formazione a vantaggio di chi si avvicini, oggi, all’aspirazione di intraprendere il mestiere del birraio, facendolo con un bagaglio di conoscenze oggettivamente valido.
L’offerta. Da quanto sopra esposto, a cascata, discende una situazione, l’attuale, per cui in Italia il bevitore curioso, e motivato anche dall’intento di estendere i confini della propria esperienza d’assaggio (dunque della propria conoscenza della materia), trova oggi a disposizione – per soddisfare, in modo appagante, la propria sete (fisiologica e metaforica) – le stesse opzioni che, un tempo, erano appannaggio delle regioni di radicata tradizione brassicola: e se ciò vi sembra poco, lasciatevi dire che – avendo vissuto da appassionati della pinta i secondi anni Ottanta e i primi Novanta – in realtà si è trattato di una piccola ma autentica rivoluzione culturale; anche perché, su tale varietà di scelta, si cala il valore aggiunto di quel tasso qualitativo di cui abbiamo diffusamente parlato.
Quali sono queste opzioni di approvvigionamento? La prima: un tessuto piuttosto diffuso di rivendite specializzate di birra confezionata (lattina e bottiglia), i beer-shop insomma, un settore il cui radicamento, di sicuro, è propriamente capillare in alcune zone della Penisola, mentre è più rarefatto in altre, che ha il merito di portare sullo scaffale prodotti di tipologia varia e diversa, tali da coprire fette davvero abbondanti del panorama tipologico.
Seconda opzione, quella delle attività di somministrazione: ovvero i pub indipendenti. Un segmento nel cui contesto l’utente trova il valore aggiunto del consumo alla spina, potendo contare su un supporto non generico (e non secondario), da parte del publican; un segmento nel quale ritroviamo, ormai ricorrentemente, quel requisito dell’ampio assortimento che consente di spaziare tra stile e stile, come tra una scuola brassicola tradizionale e un’altra.
Terza opzione, quella del brewpub: lo spazio di somministrazione di uno specifico marchio artigianale; uno spazio organico (collegato o direttamente contiguo) a quello della produzione. Una formula che, sempre più frequentemente, vede le referenze della casa sistematicamente affiancate a un ventaglio di etichette ospiti (proposte al banco di spillatura o in frigoriferi dedicati): il tutto a formare una carta all’interno della quale il cliente ha modo di svariare, sfruttando margini di manovra ampi e divertenti.
Parallelamente – sempre rimanendo al rapporto che s’instaura tra chi si muove al di quà e chi siede al di là del bancone – il personale cui fa capo la proprietà o la gestione di un pub che lavora birra artigianale, in Italia, si qualifica per una capacità media piuttosto soddisfacente di trattare i fondamentali del servizio: dalla pulizia dell’impianto a quella dei bicchieri; dall’offerta mirata di spillature a pompa, oppure per caduta, alla taratura delle pressioni nella mescita alla spina; dalla gestione delle tecniche di formazione della schiuma a quelle dei parametri relative alle temperature, si tratti di fusto oppure di lattine e bottiglie.
Un insieme di aspetti, questo, di rilevanza cruciale; che stabilisce spartiacque importanti (a favore del nostro Paese) rispetto a pratiche di somministrazione riscontrabili in diversi angoli del mondo, anche quelli corrispondenti a contesti considerati (e giustamente) altrettanti eldoradi brassicoli. Pensiamo agli Stati Uniti, ad esempio, dove (con gli opportuni distinguo, ovviamente) la pinta è non di rado gelata e colmata a filo di bordo, senza copertura alcuna a protezione della birra rispetto al contatto con l’ossigeno.
Lo stesso ossigeno che nella somministrazione a pompa, rappresenta, insieme alle temperature (non di rado fuori controllo in estate), uno dei due cartellini gialli da poter ben sventolare al centro di una sala di un pub britannico. Mentre – per completare la panoramica di quelle che abbiamo definito le regioni di radicata tradizione brassicola – i canoni di una puntuale mescita alla belga o alla tedesca sono, mediamente, molto più nella testa di un publican italiano che non in quella dei colleghi dislocati in Germania, Fiandra e Vallonia.
Insomma gli attori del nostro movimento artigianale si rivelano nel complesso preparati. Preparati in merito alle nozioni tecniche concernenti il rispettivo profilo funzionale (produttori, rivenditori all’ingrosso o al dettaglio, somministratori); preparati a un ruolo d’interlocuzione con la clientela, un ruolo attraverso il quale il bevitore procede nel proprio percorso di scoperta via via più approfondita del prodotto, ponendo le basi così al consolidamento e all’ampliamento (sebbene graduali) della quota sottratta all’egemonia industriale, a favore del settore micro.
Per chiudere, dovendo concentrare il nostro pensiero in un’enunciazione di sintesi, diremmo così: parlando di birra, abbiamo conosciuto l’Italia come una periferia semidesertica e la stiamo vedendo crescere come un giardino fiorente. Un giardino nel quale c’è da essere felici di poter gironzolare.