Miti da sfatare, cercasi! Intervista allo storico della birra Martyn Cornell
Passato e presente hanno un legame complesso ed intrigante che spesso non consideriamo oppure che, semplicemente, non riusciamo a comprendere a pieno. Martyn Cornell è uno storico e giornalista britannico che da molti anni e con innumerevoli contributi, riesce a farci viaggiare nella storia della birra in modo divertente e appassionante, con il supporto di una ricerca minuziosa e ben supportata da fatti. Nella speranza che i suoi libri vengano tradotti prima o poi in italiano per raggiungere un pubblico sempre maggiore, ecco una serie di domande per conoscere meglio l’autore di uno dei blog birrari più letti in Gran Bretagna.
Raccontaci qualcosa dei tuoi inizi, di come è iniziata questa tua passione per la birra e per la storia della birra.
Ho apprezzato il sapore della birra dal primo momento in cui l’ho provata, all’età di 14 anni, quando mio padre mi offrì una pinta in un pub del Kent, la più importante provincia inglese per la coltivazione del luppolo: l’insieme dei sapori, floreale e agrumato, assieme ad un amaro rinfrescante, mi colpirono immediatamente. Sono stato uno dei primi membri della Campagna in favore della Real Ale, ma all’epoca pur lavorando come giornalista non scrivevo ancora di birra. L’interesse per la storia della birra ebbe inizio nel momento in cui la persona che stava lavorando alla guida del Camra per le birre del luogo in cui vivevo, un po’ a nord di Londra, si ritrovò con alcune pagine bianche da riempire e sapendo che ero un giornalista, mi chiese se potevo scrivere qualcosa sui birrifici storici della zona non più in attività. Pensavo sarebbe stato facile recuperare informazioni, ma mi resi presto conto che non lo era affatto e, al tempo stesso, scoprii che mi piaceva molto la ricerca volta a recuperare le storie di questi birrifici scomparsi.
Nei tuoi articoli ti occupi spesso di sfatare falsi miti birrari. Quale fake news ti ha dato maggior soddisfazione nel farla crollare?
Non ero partito con l’intenzione di far crollare dei miti, ma quando nel 2001 decisi di scrivere una storia sulla produzione di birra in Gran Bretagna – erano 25 anni che non veniva pubblicato qualcosa del genere sull’argomento – mi dissi che non avrei incluso storie che non fossero supportate da fonti certe e solide prove. In seguito, quando iniziai le ricerche, mi resi conto che c’erano letteralmente dozzine di storie che venivano riproposte libro dopo libro, senza avere alcuna prova a testimoniare la veridicità e che comprendevano anche alcuni elementi importanti nella storia della birra, come l’origine delle porter e delle India Pale Ale. Fu uno shock: non potevo credere, ad esempio, che si identificasse come inventore delle porter un birraio, Ralph Harwood del birrificio Bell di Shoreditch ad est di Londra, con tanto di data, il 1722, e si sostenesse che la fonte di ispirazione fosse un blend di birre chiamato three-threads. Ero stupito che non si trovasse nulla a supportare questa tesi tranne un articolo in un libro pubblicato 80 anni dopo questo evento. Tutte le citazioni successive di questa storia con argomento Harwood e i three threads fuoriescono da questo articolo scritto nel 1802. Mano a mano che procedevo nella scrittura del libro, pensai che potevo dedicare un capitoletto ad un elenco di una dozzina di miti e credenze comuni della storia della birra. Alla fine mi ritrovai a raccogliere e sfatare 39 diversi miti. Fu un lavoro soddisfacente rivedere tutte queste leggende, ma il piacere maggiore lo trovo nello scoprire nuovi fatti nella storia della birra, come ad esempio il primo utilizzo dell’espressione India Pale Ale – nel 1829, in Australia – oppure le birre a lunghissima maturazione, chiamate anche le birre del 21esimo compleanno, brassate in occasione della nascita di un figlio ed erede per essere bevute al raggiungimento della maggiore età, ovvero i 21 anni. Una tradizione che era ormai del tutto dimenticata.
Pensi che il tuo lavoro di storico possa contribuire, oltre che su un piano culturale, anche su quello produttivo. Nel senso, conoscere il passato birrario può avere ripercussioni sul modo di fare birra oggi? Apprezzi il tentativo di recuperare ricette dal passato?
Una delle cose più interessanti della birra è l’abilità nel ricreare i gusti del passato – non in modo del tutto preciso, dato che le materie prime odierne, i malti, i luppoli, i lieviti di oggi hanno tutti qualche differenza – avvicinandoci a profumi e sensazioni di birre perdute. Penso questo sia magnifico e con me sono d’accordo moltissime altre persone, da birrai e a semplici bevitori. Non ho niente contro quei birrai che spingono nella direzione opposta di creare nuove, e in alcuni casi estreme, tipologie di birra, ma è fantastico provare ad esempio una birra ispirata alle porter del 1750, oppure una sconosciuta birra dalla Polonia che non si era vista da un secolo o più.
Il modo di fare birra, i gusti, sono cambiati, rivoluzionati nel tempo. Se avessi la macchina del tempo, in quale anno e in quale posto vorresti materializzarti per farti una birra?
Questa è una domanda parecchio difficile, perché la risposta più onesta sarebbe “ovunque e in qualunque epoca!”. Mi piacerebbe provare le prime birre che i Sumeri bevevano da grandi boccali con lunghe cannucce 3000 anni fa, vorrei assaggiare lo zythos degli Egizi e il curmi dei Galli. Sarebbe anche eccitante assaggiare quello che veniva brassato nei monasteri svizzeri nel 850 d.C., vedere la proposta diuna alehouse anglosassone, provare le prime birre luppolate, le prime porter del 1720 circa, le prime IPA che arrivarono in India qualche decennio dopo, le prime lager di Monaco nel 1830 e qualche anno dopo le prime lager chiare boeme… c’è davvero così tanto!
Tra i molti tuoi contributi, oltre alcuni libri e numerosi articoli, c’è anche il tuo blog Zythophile che ha un larghissimo seguito: cosa consiglieresti a chi vuole scrivere di birra oggi? E a quale dei tuoi libri sei più legato?
Il consiglio più importante credo sia “Scrivi per te stesso. Scrivi di ciò che ti interessa”. Io scrivo per capire l’argomento: raccolgo tutti i fatti – o perlomeno spero di farlo – e poi cerco di renderli al computer in modo che siano di facile comprensione. È quello che faccio con il blog: sviluppo una soluzione narrativa di un particolare aspetto della storia della birra. Se si riesce a farlo nel modo giusto a quel punto il lettore dovrebbe essere in grado di leggere e comprendere quello che vuoi esprimere, perché hai reso comprensibili i fatti di un argomento interessante. L’ultimo libro che ho pubblicato, Strange Tales of Ale, è una collezione di una trentina di interessanti post tratti dal mio blog – o perlomeno di quelli che a mio parere erano i più interessanti – ed è il libro di cui sono più orgoglioso, perché ritengo che sia una piacevole lettura anche per chi non è un fan della birra.
Quasi due anni fa, hai parlato di uno spettro che sta infestando il mondo della birra artigianale, ovvero della scarsa qualità di molte produzioni, un problema che potrebbe seriamente danneggiare la crescita del mondo craft a livello mondiale. Sei ancora di questo avviso oppure ci sono segnali diversi?
In Inghilterra abbiamo ancora un serio problema con le birre in cask di scarsa qualità, con pub che non dedicano loro le dovute attenzioni e questa è una minaccia reale per uno degli stili birrari più eleganti del pianeta, le Real Ales. Nel più ampio universo della birra craft ritengo sia un problema minore quello della scarsa qualità di per sé rispetto alle tante birre “da collezionare”, con tanti troppi birrai che si lanciano verso qualunque tendenza o moda che il giorno prima era passata davanti al birrificio della porta accanto: in precedenza erano le gose e le saison, oggi è tempo di torbide New England IPA, e stout “da dessert”. Entrambe potrebbero essere delle birre molto buone, ma ci sono troppo birrifici che ne fanno delle versioni noiose, sbiadite, che molti bevono solo per dire “l’ho provata!”, perché pensano di dover fare quello stile senza cercare di ottenere un risultato differente ed emozionante.
Sei mai stato in Italia? Cosa pensi della scena birraria italiana, e come viene percepita nella terra di Albione?
Sono stato in Italia parecchie volte negli ultimi due-tre anni e sono rimasto molto impressionato dalla qualità della birra artigianale italiana, dalla dedizione e dalla capacità dei birrai artigianali italiani e dai tentativi di creare tipi di birre artigianali a forte connotazione italiana, dall’utilizzo di ingredienti territoriali, alla maturazione in botti di vino. Amo il modo in cui i birrai italiani cercano di legare il bere artigianale al mangiare nei locali, con birra e cibo che sulla tavola assumono un’importanza congiunta. Questo è un qualcosa che abbiamo perso in Inghilterra ed è un vero peccato che non ci sia maggiore enfasi nell’abbinamento birra e cibo da parte dei birrai artigianali inglesi. Ho una teoria, che deriva da un viaggio che ho avuto la fortuna di fare all’edizione 2018 del Barcellona Beer Festival: i paesi con un grande interesse verso la gastronomia, come l’Italia o come la Catalogna hanno saputo cogliere molto velocemente il fascino della birra artigianale sfruttandone le molte possibilità. Gli inglesi non sembrano ancora essersi accorti come invece dovrebbero delle molte magnifiche birre che vengono attualmente prodotte in Italia, ma alcune catene di ristoranti in Gran Bretagna hanno iniziato a tenere una cantina di birre artigianali italiane, invece della onnipresente Peroni. C’è un locale molto bello specializzato nella birra artigianale italiana, vicino a dove vivo, nella parte ovest di Londra: si chiama The Italian Job.
intervista di Alessandra Agrestini apparsa su Fermento Birra Magazine nr 43