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L’incubo della fermentazione bloccata: cause e soluzioni

L’attimo di inoculare il ceppo di lievito previsto dalla nostra ricetta è sempre un momento di inquietudine e di apprensione, soprattutto quando manca uno storico di fermentazioni precedenti in caso di strain nuovo di zecca. Ancor di più considerando che ogni ciclo fermentativo è una storia a sé ed ogni lotto può nascondere insidie o problematiche inattese. E il momento di sfoggiare il densimetro per la valutazione della FG può risultare pertanto una circostanza di trepidazione o di catarsi. La problematica delle fermentazioni bloccate è una delle complicazioni che più grattacapi procurano al birraio, per i tempi dilatati di produzione, per la difficoltà di gestione di un prodotto ancora abbiente in termini di zuccheri, per il profilo organolettico non proprio rispondente ai canoni dello stile prodotto. Spesso ci si ritrova dinanzi ad un bivio pericoloso, una decisione che può comportare in egual modo pro ma soprattutto contro. Cerchiamo di comprendere pertanto i motivi di un arresto di fermentazione ma soprattutto le modalità per uscirne senza impattare negativamente sul prodotto finito.

Quella che noi chiamiamo fermentazione è in realtà un processo molto più complesso suddividibile didatticamente in una prima fase aerobica di crescita cellulare esponenziale ed in una seconda fase anaerobica dove le cellule switchano il loro metabolismo verso l’attività fermentativa vera e propria. Durante questo ciclo si originano dalle 3 alle 5 generazioni cellulari, partendo da x cellule madri. Durante questo processo il mosto subisce una eloquente modifica nella sua composizione: i composti del carbonio, fonte primaria di nutrimento si riducono drasticamente (glucosio, fruttosio, maltosio, maltotriosio), i composti azotati vengono completamente assimilati dalle cellule, gli acidi grassi anch’essi assorbiti e redistribuiti alle membrane cellulari e/o utilizzati come precursori per la sintesi degli esteri; anche i micronutrienti (vitamine e minerali) vengono immediatamente captati ed utilizzati per i vari processi metabolici e plastici, così come l’ossigeno disciolto, utilizzato esclusivamente per la fase di respirazione iniziale e per la biosintesi degli acidi grassi insaturi, fondamentale per la replicazione cellulare.


Il processo di fermentazione ovviamente rilascia il componente tossico per eccellenza per i lieviti, l’etanolo. Ogni ceppo di lievito mostra una specifica tolleranza, una impronta genetica che può comunque essere modulata con diverse esposizioni all’alcol. Motivo per cui spesso un lievito da recupero tende ad essere più attenuante, oltre alla possibilità di acquisire la capacità di utilizzare a scopo nutritivo zuccheri più complessi. È lampante dunque la situazione in cui versano i lieviti sul concludersi della fermentazione, ovvero un ambiente ostile spoglio di nutrienti, acido e alcolico; pertanto è fondamentale che la salute dei nostri amici eucarioti sia preservata e incoraggiata, con un pool numeroso di cellule giovani e fluttuanti e con membrane cellulari ben integre e nel pieno delle loro funzioni di protezione e scambio con l’ambiente. Un mosto correttamente ossigenato, ricco di azoto e con un quantitativo adeguato di cellule di partenza è sicuramente preludio di una buona replicazione cellulare e garanzia di una buona redistribuzione di acidi grassi dalle cellule madri alle cellule figlie. Al contrario invece, una cellula madre già povera di acidi grassi insaturi e ergosterolo non può garantire alla progenie una quantità idonea dei lipidi fondamentali per l’integrità cellulare, siccome ogni replicazione comporta una diluizione del pool lipidico. Quanto visto risulta essere una delle prime cause di blocchi fermentativi, cellule che perdono la capacità di assimilare carboidrati per proteggersi da un ambiente non più tollerabile. In realtà le capacità metaboliche non sono completamente cessate ma più spesso decisamente rallentate creando notevoli problemi di sovrasaturazioni o pericolose deflagrazioni una volta che il prodotto viene racchiuso nel contenitore previsto.

La scelta della forma fisica del lievito ha un ruolo primario nella gestione dello stesso; i lieviti liofilizzati sono quelli meno esigenti di ossigeno e nutrienti siccome idoneamente “anabolizzati” attraverso il ciclo produttivo degli stessi, la successiva quiescenza data dalla perdita della materia acquosa li rende molto più stabili nel tempo. Discorso dissimile per i lieviti vivi e vitali, come quelli liquidi e/o in crema, provenienti da una propagazione, decisamente più esigenti e problematici nella gestione. La punta dell’iceberg però è rappresentata dai lieviti di recupero, quelli provenienti da fermentazioni precedenti ed inoculati tal quali, senza uno step intermedio di rivitalizzazione e propagazione. Come di cui sopra, i lieviti che hanno già affrontato un processo fermentativo sono poveri di nutrienti ma soprattutto di grassi e steroli, senza considerare la presenza di un pool di cellule vecchie che hanno perduto buona parte delle capacità assorbitive ed escretorie. Volendo pragmatizzare il discorso, queste cellule rischiano di non reggere una nuova fermentazione e portarla a compimento.
Ma possono esistere o coesistere altre cause di blocco di fermentazione; ad esempio, un ammostamento condotto male può creare problemi di final gravity alta (in questo caso non si tratta di un vero blocco di fermentazione ma di una eccessiva presenza di destrine e zuccheri non fermentescibili dal ceppo scelto). Lieviti molto flocculenti possono creare problemi di arresti fermentativi, così come ceppi che non presentano una tolleranza all’etanolo elevata (come nel caso delle birre high gravity). Anche una contaminazione da lieviti e batteri wild può esser causa di un’interruzione della fermentazione, sia per la competizione con i “patogeni” per i nutrienti sia per la capacità di alcuni ceppi di produrre il cosiddetto fattore killer, una proteina che danneggia i lieviti concorrenti. Vediamo ora quali possono essere le possibili soluzioni da adoperare senza che ci siano interferenze sulla qualità del prodotto finito.

Rimontaggio del lievito: soluzione di facile applicazione e spesso risolutiva, soprattutto in caso di utilizzo di ceppi flocculenti e sedimentanti abbinati ad un tank tronco-conico. Una flocculazione anticipata o promossa da altri fattori esterni può far sì che una buona quantità di cellule non siano esposte verso i substrati da attingere. Esercitare una sorta di “agitazione orbitale” o meglio ancora insufflare CO2 dal punto più basso del tank può sponsorizzare la messa in sospensione dei lieviti. Ciò ovviamente non funge in caso di ceppi poco attenuanti come da scheda tecnica o in presenza di una elevata concentrazione di destrine e/o di composti non fermentescibili come nel caso delle birre scure ricche di malti tostati.

Incremento della temperatura: non sempre efficace, trova applicazione soprattutto nel caso di ceppi belga, inclini a essere gestiti a più alte temperature. Non bisogna spaventarsi di incrementare la temperatura anche ad intervalli notevoli (superiori ai 30 gradi), la produzione di esteri e alcoli superiori si pone in essere prevalentemente nelle prime fasi di propagazione e fermentazione, quindi nessun grosso rischio di off flavour. Abbinare un’agitazione dei lieviti all’incremento di temperatura può essere una strada da perseguire, così da velocizzare l’efficacia del “trattamento” e al contempo limitare i rischi da autolisi del lievito.

Re-pitching: fase già più invisa dai birrai e che necessita di un minimo di conoscenze e competenze, soprattutto per i rischi di contaminazione del prodotto. L’aggiunta di lievito “fresco” è una procedura non banale da effettuare. Il primo scoglio da superare è la scelta del ceppo da inoculare. Nel caso di attenuazioni molto basse sarebbe consigliabile utilizzare lo stesso lievito, preferibilmente vivo e vitale, soprattutto in mosti ad alta densità (a meno che non ci siano basse tolleranze all’alcol). Un lievito da propagazione, sano, ben aerato e coltivato con estratto di malto, quindi già predisposto ad assorbire zuccheri come il maltosio e il maltotriosio e che ha già incontrato l’alcol durante il suo percorso, rappresenta la scelta d’elezione per tentare di concludere una fermentazione incompleta. Nel caso di scelta di un ceppo diverso è bene riporre le sorti dell’attenuazione su di un lievito ben alcol-tollerante, poco flocculante e che abbia un profilo di attenuazione simile al ceppo primario, onde evitare di snaturare la struttura della birra. Evitare possibilmente di inoculare un lievito liofilizzato tal quale nel mosto senza aver subito una reidratazione in sola acqua sterile; viceversa, la reidratazione in un mosto contenente alcol non è una soluzione auspicabile per la salute delle membrane cellulari.

Enzimi: soluzione estrema e impattante sulle caratteristiche del prodotto finito è quella di aggiungere enzimi attivi a temperature di fermentazione, ad esempio le glucoamilasi da Aspergillus niger; questi enzimi in poche ore convertono tutte le destrine del mosto in zuccheri semplici rapidi da assimilare. Ovviamente tale procedura comporta la totale attenuazione del mosto; questa caratteristica può comunque non essere una complicazione nel caso di prodotti dove l’attenuazione elevata è ricercata. La presenza degli enzimi in sospensione di riflesso non permette alcuna possibilità di aggiunte di maltodestrine o similari per compensare la mancanza di corpo.

Nuovi orizzonti: spesso i prodotti nati fallati si “sfruttano” per esperimenti vari, aggiunte di lieviti contaminanti, affinamenti in botte, aggiunte di frutta e similari. Ecco, magari, se ben ragionato, un destino diverso per il prodotto può rivelarsi una piacevole sorpresa e un’occasione di studio e di approfondimenti.