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Quali sono state le tendenze birrarie statunitensi del 2016

Cereali alternativi, (più o meno) gentili acidità, i luppoli del Pacifico, la rivincita del German Style. Queste, sintetizzando al massimo, quattro fra gli orientamenti di fondo lungo i quali si sono sviluppate alcune delle tendenze più significative che hanno caratterizzato il 2016 sullo scenario – quello americano – che rappresenta il terreno di operazione a partire dal quale, poi (in modo sostanzialmente regolare e automatico), prendono il là gli sviluppi di produzione e di mercato destinati a registrarsi, a cascata (sebbene magari con gradualità), anche in tutto il resto del pianeta.

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Le tendenze in questione sono, lo si sarà capito, quelle relative alle tipologie birrarie che più hanno fatto parlare di sé nel corso di quest’anno: sia per il grado di interesse riscontrato da parte dei passionisti, sia per il livello di gradimento raccolto tra un pubblico di consumatori della pinta più vasto e meno specificamente indirizzato. Ecco allora, di tali trend una rapida carrellata. Prima direttrice, quella che ha premiato l’utilizzo di semi di varietà non comprese nella stretta cerchia occupata dall’orzo o dal frumento e dai suoi derivati. In questo senso, accanto (e ancor più della segale) un ruolo di spicco lo ha avuto l’avena: impiegata non solo e non tanto (pratica assodata) in generi quali Porter, Stout e loro ramificazioni, ma anche in meno usuali Pale Ale, specialmente al fine di dare spessore ed equilibrio in esecuzioni ad alto contenuto di luppolo. Un esempio? La Oatsmobile, Session Oat Pale Ale (da 4,3 gradi) della Bell’s Brewery (MIchigan). Secondo percorso, quello segnato dei luppoli appartenenti a cultivar tipiche dell’area oceanica, in specie provenienti da Nuova Zelanda e Australia; nomi quali Vic Secret; Waimea, Topaz e ancora Ella: quest’ultimo presente, in forze e in regime monovarietale nell’omonima  Ella Imperial Ipa, single hop ad alto tasso alcolico (8) firmata da Flying Dog (Maryland).

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Terza traiettoria, la riscossa delle tradizioni procedurali e dei profili sensoriali facenti capo alla scuola tedesca. Un movimento generale che è tornato a far volgere i riflettori tanto verso basse fermentazioni da tempo messe relativamente ai margini, come le Vienna Lager (si veda l’esempio di quella targata Devil’s Backbone, Virginia); tanto verso interpretazioni attinenti al perimetro delle acide, con particolare riferimento ai repertori delle Berliner Weisse (magari con aggiunta di frutta) e, forse ancor più, delle Gose: in tal senso, valga come rappresentante del ramo la Otra Vez, appunto una Gose con frutti di opuntia (prickly pear cactus) della scuderia californiana Sierra Nevada. Parallelo a quest’ultimo binario (delle lattiche di matrice germanica) – e siamo alla quarta tendenza dell’anno – quello dell’attenzione verso le Sour in generale. Un innamoramento che ha contagiato anche la (peraltro mai fiaccata) devozione verso la progenie delle Ipa; e la contaminazione si è rivelata efficace soprattutto verso le edizioni in bassa gradazione, le Session. Così si è affermata la corrente delle Dry-hopped Sour Ales, di norma acidificate con il concorso di batteri lattici e poi esplosivamente caricate con dosi deflagranti di luppolo in aroma: un’esponente di questa schiera è la Sour Bikini, Sour Pale Ale da 3 gradi della gamma danese Evil Twin, brassata in South Carolina a cura di Westbrook Brewing.