Questione di stile: la birra italiana fa tendenza?
Come tutti sanno nell’ultima edizione del “BJCP Style Guidelines”, pubblicata nel maggio del 2015, è comparsa, nella seconda appendice, il capitolo “Italian Styles” al cui interno è presente lo stile “X3. Italian Grape Ale”. Come si legge dalla premessa si tratta di uno stile non ancora ufficiale, non incluso nell’elenco dei principali. Comunque la si pensi sul valore degli stili birrari – personalmente sono stato sempre piuttosto scettico – va comunque ammesso che il BJCP (Beer Judge Certification Program) sia il punto di riferimento per la categorizzazione delle birre e che abbia un peso – anche “politico” – fondamentale, a livello planetario.
Va sottolineato il fatto che il primo stile italiano riconosciuto dagli osservatori stranieri descrive una categoria di birre “strane”, prodotte con materie prime “atipiche”. Del resto in un paese privo di tradizioni birrarie proprie, ma ricchissimo di biodiversità alimentare era lecito aspettarsi che i birrai, in questi vent’anni di epopea artigianale, provassero ad utilizzare ingredienti in grado di caratterizzare le proprie creazioni, di legarle al territorio, di renderle uniche e riconoscibili. In un primo periodo sembrava che dovesse essere la castagna, la madrina del “made in Italy” birraio, con decine di produzioni che facevano molto parlare di sé, anche all’estero, poi l’elenco delle materie prime utilizzate dai nostri birrai si allungato moltissimo, in qualche caso forse anche con qualche eccesso. Non sorprende quindi che siano le “Italian Grape Ale” ad aprire la strada degli stili italiani.
Ritengo però che dietro le quinte di questo importante riconoscimento internazionale si celi anche un rischio, per il movimento artigianale italiano. Quello di essere confusi con il paese del “famolo strano”, dove una birra debba per forza contenere un ingrediente particolare, magari a km 0, possibilmente sconosciuto fuori dalla provincia. Non è questa l’Italia birraria. La provenienza della materie prime non è e non può essere ritenuta fondamentale, nella produzione della birra. Non lo dovrebbe essere nemmeno nei paesi di grande tradizione, ma certamente non lo può essere per l’Italia, che non ha una grande storia di maltazione e ancor meno di coltura del luppolo. Fortunatamente stanno nascendo molte sperimentazioni, ed è auspicale, in un futuro, arrivare a birre prodotte con materie prime nazionali, ma per ora siamo ben lontani dall’autosufficienza di malti e luppoli.
La birra è prodotta con materie prime che si possono facilmente trasportare: anche in Belgio o in Inghilterra non è raro che un birrificio usi un malto straniero (ad esempio tedesco), mentre è ancora più frequente che si usi un luppolo decisamente esotico, statunitense, se non addirittura dell’altro emisfero. Il birraio deve avere il diritto di scegliere le materie prime che meglio si adattano alla propria ricetta, anche se questo significa attingere da un mercato lontano. Anche perché rimangono, in ogni caso, due ingredienti inevitabilmente “territoriali”: l’acqua – le cui caratteristiche specifiche influenzano profondamente il risultato finito, pur considerando i moderni trattamenti – e… il birraio! Chi produce la birra è parte di un territorio, è espressione di una cultura, di una gastronomia, di una socialità che sono ovviamente legate al luogo in cui il birrificio opera. Trovo molto calzante il paragone con la cucina; le tradizioni gastronomiche di un territorio derivano da una somma di moltissimi fattori, che spesso prescindono dalla mera territorialità delle materie prime. Le acciughe non sono certamente tipiche del Piemonte, eppure la bagna càuda è un elemento fondamentale nella cultura culinaria della regione. I nostri birrai sono – esattamente come i cuochi – influenzati dal gusto, dalla sensibilità e dalla cultura della propria terra e conseguentemente le nostre birre esprimono gli stessi valori. La cultura gastronomica italiana non ha pari al mondo e più passa il tempo più mi convinco che la vera cifra stilistica del made in Italy birrario si possa tradurre in valori che sono comuni alla nostra gastronomia: eleganza, carattere e creatività.
Che le nostre birre siano eleganti e abbiano carattere ce lo dimostrano i concorsi internazionali, dove l’Italia miete, ogni anno, risultati davvero entusiasmanti. In un concorso è fondamentale la difficile convivenza tra carattere ed eleganza. Senza carattere una birra non emerge, non “esce” dalle batterie, dalle numerose concorrenti sul tavolo, ma al contempo se non c’è grande eleganza il giurato (che quando assaggia per una competizione inevitabilmente entra in modalità “severità massima”) la boccia immediatamente, premiando le birre magari meno muscolari, ma più equilibrate. Tutte le volte che mi capita di assaggiare birre italiane in parallelo alle produzioni estere mi colpisce sempre lo stesso aspetto: le birre straniere sono spesso ottime, ma più muscolari, più cuspidali, mentre le nostre migliori creazioni sono costruite con grande finezza ed equilibrio, pur non perdendo di vista l’intensità.
Ritengo però che l’elemento che meglio ci caratterizza – e che ha già consegnato all’Italia un posto importante nella storia birraria mondiale – sia la creatività. Creatività che non va intesa tanto nella scelta delle materie prime bizzarre o nelle tante provocazioni che quotidianamente (magari sotto forma di one-shot) nascono nelle sale cottura dei birrifici italiani, ma nell’accezione positiva di innovazione, ricerca e studio. L’assenza di una tradizione lascia i nostri birrai liberi di spaziare, di sperimentare, sia sulle materie prime, sia sulle tecniche produttive.
Quel senso di equilibrio, quella sensibilità, quell’amore per il proprio lavoro e un po’ di quella lucida follia che caratterizza i nostri (più bravi) artigiani, credo possa definire il made in Italy birrario. Mentre in altri paesi – come la Svezia, o il Giappone – la renaissance artigianale sta creando ottimi prodotti, che però raramente riescono ad aggiungere qualcosa al panorama stilistico mondiale, in Italia stiamo definendo nuovi codici, stiamo cambiando le regole, stiamo scrivendo pagine che nessuno prima aveva immaginato e che credo rimarranno per sempre.
Fonte: Fermento Birra Magazine