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La birra al tempo dell’hype: analisi di un fenomeno

L’hype è quel fenomeno per cui senza una palese ed apparente ragione un prodotto viene richiesto comprato, cercato. Non sai neanche tu perché, ma avverti un desiderio irrefrenabile di possederlo. Vivevi benissimo fino al giorno prima, ma ora scopri che deve essere tuo. Su Facebook le persone che contano ne parlano come una cosa unica, anche su Instagram girano scatti… e io? Di certo stiamo parlando di un fenomeno che ha poco di razionale, che vive molto di fenomenologia sociale (social?) e che per tanti versi trova alimentazione nei meandri “egocentrati” del nostro animo. Interessante notare come la parola hype sia traducibile in italiano come “clamore” o anche “montatura”, ma anche “pubblicità”. Tre diversi significati che in realtà hanno alcuni aspetti in comune e che in molti casi sono veri tutti. Perché se è vero che chi cerca di creare hype su un prodotto, cerca fondamentalmente del clamore mediatico che porta, in ultima analisi, al consumo di quel prodotto, è anche vero che spesso il tutto è creato ad arte. È a tutti gli effetti una forma di pubblicità. E se leggendo queste righe sarete portati a pensare che sia critico sul fenomeno, in realtà io ne sono incredibilmente affascinato. Se avessi un mio birrificio farei di tutto per creare hype sul mio marchio e sulle mie birre. Perché è figo, perché è iconico, perché fa bene al mio ego e soprattutto perché conviene. Conviene dal punto di vista dell’immagine, dell’idea che gli altri hanno di me come produttore e conviene economicamente. 

Sarebbe quindi interessante tentare di comprendere quali sono quei fenomeni che accrescono o costruiscono l’hype. Lungi da me dare una ricetta per come crearne, sia perché nella vita non mi occupo di marketing, sia perché non ho nemmeno un birrificio. Posso parlare in qualità di consumatore (direi più che consapevole) e come osservatore del mercato artigianale della birra. Come si diventa un marchio ricercato quindi? Andiamo per punti con la premessa che un birrificio di successo è tale non perché soddisfa tutte queste caratteristiche. 

Fare birre buone. Potremmo stare a parlare su questo punto per ore senza venirne realmente a capo. Fare birre buone, molto buone, è garanzia di successo e quindi di clamore mediatico? Sì, ma anche no. Bisogna ammettere che il grosso dei birrifici di grido fa birre in genere molto buone, ma è pur vero che se nessuno sa che fai la birra buona o se, peggio ancora, non lo sai comunicare, non sarai un birrificio di grido. Badate bene, non significa che se non si crea clamore sulle proprie birre allora non si vende. Magari hai gli agganci buoni, le conoscenze giuste, la corretta distribuzione, semplicemente un locale nel posto giusto, fai un sacco di soldi, ma nessuno ti riconosce come birrificio iconico. Nessuno si catapulterà dalla poltrona per far la fila al tuo birrificio per l’ultima imperial stout al tamarindo.

L’opinion leader. Spesso basta una persona a montare il tutto. Il cosiddetto “opinion leader” è una persona che gode di credibilità nel suo ambiente, oppure è semplicemente uno che per motivi anche questa volta imprecisati è seguito da una certa massa. Immaginate il contesto: birrificio sconosciuto; l’opinion leader posta su un social a caso una immagine della birra ignota apostrofando con frasi “ho visto Gesù Cristo”, “una birra perfetta”, “la miglior IPA d’Italia”. A questo punto i seguaci corrono alla ricerca della birra per dire che: 1) anche loro l’hanno provata; 2) confermare, ovviamente, il riscontro dell’opinion leader; 3) far capire che si è uno del giro. I publican tempo zero piazzano ordini al birrificio sulla fiducia. Stiamo parlando di una reazione a catena che nel giro di qualche settimana spinge dal totale anonimato ai vertici dell’hype nazionale. Alimentarlo nel tempo è poi altro affare.

Marketing. Nota dolente della quasi totalità dei birrifici italiani. Ciò che solo in pochi riescono a capire è che “il marketing non è una battaglia di prodotti, è una battaglia di percezioni” e nient’altro! Troppo spesso i birrifici sono focalizzati sui propri prodotti ritenendoli, magari a ragione o no, questo conta poco, dei buoni prodotti. Non capiscono invece che c’è un palese disallineamento tra quello che loro credono e ciò che i consumatori vedono. Il problema nasce dal fatto che nessuno, o pochi, prima di partire con un piano marketing studiano il mercato. Pochi riescono a capire cosa il consumatore vuole e soprattutto come lo vuole. Ricordo sempre la pubblicità della Ichnusa, bellissima, incentrata sull’identità sarda, già di per sé alta, con lo stravolgimento dei canoni della società a favore di un modo di vivere tutto sardo, identitario, verace, autentico, molto cool. Musica perfetta, bassi che pompano, fotografia emozionante e d’un tratto preferiresti farti una birra con le tue pecore piuttosto che bere Champagne in centro a Parigi. L’Ichnusa ha basato la strategia di marketing sui suoi clienti, toccando le corde dell’emozione e, facendo leva su questa, sulle loro scelte di consumo. Da lì in poi ha consolidato alla grande la sua posizione in Sardegna (primo mercato da sempre) ed è entrata nel resto del mercato “continentale” italiano come birra percepita più genuina, autentica e locale di una Heineken o Moretti. Prendete esempio piuttosto che criticare. Ascoltate i vostri clienti, capite cosa vogliono e cambiate voi per essere più vicini a loro. Certo, tutto questo ha un costo.

Storytelling. Fa parte del marketing alla fine ma merita un discorso a parte. Varrebbe forse fare anche un parallelo col mondo del vino. Le cantine vitivinicole iconiche hanno tutte un qualcosa da raccontare. Una storia di persone, di avi, di terra e territorio, di tradizione. Le cantine sono spesso belle, sono luoghi di incontro, di magia, di convivialità e unicità. A parte pochissime eccezioni, i birrifici italiani non hanno uno storytelling al pari della media dei produttori vitivinicoli. Mi viene ovviamente alla mente Teo Musso e Baladin che nel campo dello storytelling non ha rivali in Italia. Sa raccontare un prodotto (non a caso parla di terra e territorio) e ha saputo creare un birrificio bello, visitabile e vivibile, aperto al pubblico, coinvolgente e sempre diverso. Quanti altri hanno fatto questa cosa in Europa? Pochi, probabilmente nessuno. 

I social. Potenza del marketing contemporaneo da qualche anno e per qualche anno ancora, fino a quando non si troveranno altri canali. Arma a doppio taglio per le aziende: il tam tam social delle discussioni ti può far volare in alto e affondare. Un post sbagliato o azzeccato nei contenuti che diventa virale può cambiare la visione di migliaia o milioni di consumatori in qualche ora. Il mercato della birra artigianale italiano è fatto ancora di piccoli numeri in termini di consumatori e questo ha vantaggi e svantaggi. Ma per darvi un’idea della potenza del web cito il recente caso dei Nutella biscuit. La Ferrero aveva promosso i prodotti attraverso i canali marketing come un normale prodotto di nuova uscita, uno dei tanti. Ma il fenomeno di isteria collettiva che ha portato le persone a catapultarsi nei supermercati per farne incetta è stato indipendente dalla strategia di marketing di Ferrero e si è autoalimentato sui social. Come spesso capita nelle prime settimane di lancio di un nuovo prodotto si registra un picco di vendite, che in questo caso fu superiore a precedenti casi analoghi. I supermercati non riuscirono a stare al passo con i rifornimenti ed allora esplose la bomba sui social: il tam tam sulla la scarsa reperibilità unita ad un evidente gradimento del pubblico, unita ai meme sarcastici e post virali, alimentarono una reazione a catena che ha ulteriormente contribuito a rendere i biscotti ancora più ricercati, introvabili e quindi a parlarne ancora di più. 

Il prodotto conta. Come detto all’inizio è importante fare birre buone, ma non basta! È inoltre un fatto che gran parte delle birre che creano hype sono prodotti molto particolari: Imperial Stout, Barley Wine, birre acide, qualsiasi cosa passata in botte, birre alla frutta, IPA con millemila luppoli. È invece difficile trovare stili canonici come pils, bitter ecc. Perché? Perché alla fine siamo alla costante ricerca del nuovo, dell’esclusivo, del particolare e spesso del trash. L’ordinario stanca, è noioso, non a nulla da dire. Che peccato! Probabilmente un consumatore adeguatamente alfabetizzato non cadrebbe frequentemente in queste dinamiche. Ma è difficile sfuggirne per chiunque, me compreso! Il caso limite è rappresentato da Omnipollo, produttore che dire eccentrico è dire poco. Le birre sono provocazioni, creazioni, a volte quadri, installazioni. Quelli di Omnipollo hanno fatto birra con letteralmente tutto e poco importa che siano difficilmente bevibili oltre i 5cl, o che in alcuni si debba usare il cucchiaino. Conta la performance e poco altro. Vincono loro! 

Scarsa reperibilità. Fenomeno spesso associato al punto precedente, ma non necessariamente. Per banale regola della legge della domanda e dell’offerta se un bene è richiesto e ce ne è poco, il prezzo sale. È il caso di menzionare le birre di Westvleteren che sono reperibili solo presso l’Abbazia e nel locale antistante. Se la trovi altrove, dovrai sborsare intorno ai 18€ per un bottiglia da 33cl. Anche in virtù di questo aspetto, la Westevleteren XII è quasi sempre alla vetta dei maggiori siti di rating.  

Complicato, per concludere, dare una ricetta univoca per diventare un birrificio iconico. Tanti aspetti sono indissolubilmente legati alla percezione che il consumatore ha del prodotto/birrificio. Sono però sicuro che quando alcuni birrifici inizieranno a spostare l’attenzione dal loro prodotto al cliente, ascoltandolo e abbandonando la teoria del “faccio le birre che piacciono a me”, allora avremo qualche imprenditore in più e qualche artigiano degli anni 90 in meno. Badate bene, non state vendendo l’anima al diavolo, ma state solo facendo il vostro lavoro. Buona fortuna!