Vintage beer: consigli per invecchiare la birra
Modificarsi in qualcosa di diverso, certamente non di peggiore, ma quantomeno di ugualmente o più interessante rispetto al profilo originario. Potremmo riassumere così il senso dell’invecchiamento applicato a una birra, un tema che appare con crescente frequenza in agenda tra le via via più estese schiere di appassionati e curiosi, proporzionalmente all’ascesa della birra stessa entro il novero dei prodotti alimentari di pregio. Un tema la cui valenza, nello specifico, si pone in prosecuzione rispetto alla consolidata percezione che, dei processi di maturazione nel tempo, si ha in riferimento ai vini e in particolare a quelli di alto lignaggio. E dunque, quasi per osmosi, l’interesse verso i traguardi raggiungibili oltre la formale data di scadenza (espressione inesatta, visto che si tratta in realtà di un termine minimo di conservazione) si travasa anche all’interno del perimetro che segna il confine del reame degli orzi e dei luppoli. Ebbene, proprio in virtù del contenuti di forte attualità di cui si va caricando l’argomento, abbiamo voluto indagarlo, dando la parola ad alcuni di coloro che, su questo fronte, operano ormai da molti anni, avendo perciò assunto il ruolo di pionieri: Manuele Colonna, storico presidiatore della scena romana, con locali come il Ma che siete venuti a fa’ e il Bir & fud, a Trastevere; Michele Galati, titolare e anima, in provincia di Bergamo, dell’Abbazia di Sherwood (a Caprino Bergamasco) e del nuovo Nember Pub (a Nembro, dove raccoglie il testimone dell’altrettanto storico The Dome); Antonio Nino Maiorano, deus ex machina dello Sherwood Pub a Nicorvo (Pavia) e del LambicZoon a Milano; Gianluca Polini ovvero il signor Ottavonano, altro indirizzo di riferimento, operativo da anni ad Atripalda (Avellino); ecco quello che i quattro – menzionati in rigoroso ordine alfabetico – hanno risposto ad alcune nostre domande.
Piano con le parole
Prima di entrare nel vivo del resoconto, corre però l’obbligo di una (breve) premessa terminologica. In questo approfondimento, utilizzeremo, a indicare una birra invecchiata, l’appellativo vintage nonostante, per essere precisi, si tratti di una voce che traduce, in inglese, i significati di vendemmia, raccolto, annata: dunque quello di un prodotto millesimato, del quale cioè si specifica la data di elaborazione, in quanto legata a contenuti organolettici specifici che rendono il prodotto stesso presumibilmente destinato a un consumo da effettuarsi anche dopo alcuni (o molti) anni. Una eventualità in ordine alla quale avere un inquadramento anagrafico di ciò che sarà assaggiato in futuro risulta evidentemente opportuno. In realtà, tuttavia, attraverso questo collegamento indiretto, la qualifica in questione, di vintage appunto, è passata nella pratica a includere non esclusivamente referenze messe sul mercato in edizioni limitate, a cadenza annuale o comunque periodica; bensì anche birre brassate normalmente più volte sul ciclo dei 12 mesi (1 gennaio-31 dicembre) ma che pure, in virtù di loro propri requisiti favorevoli, sono passibili di essere avviate a maturazione in bottiglia. Un’assimilazione impropria, almeno parzialmente, ma nonostante ciò, ormai acquisita nel frasario corrente.
Cosa invecchiare
La successiva domanda è: quali le prerogative che rendono una birra potenzialmente adatta o inadatta all’invecchiamento? In tal senso Polini individua almeno un paio di requisiti accreditati di dar luogo, sotto ossidazione (la conseguenza diretta del tempo che passa), a caratteristiche organolettiche comunque sensate: Intanto, un consistente tappeto alcolico (rischioso scendere al di sotto del 7% in volume); e poi una robusta dorsale acida, alla quale può contribuire anche il grado di cottura dei malti, fattore quest’ultimo che si esprime già nel colore del prodotto. Pensando a maturazioni quantomeno di 5 anni, trovo che un adeguato dinamismo gustativo sia garantito da tipologie quali Old Ale, Barleywine, Imperial Stout, Baltic Porter, per indicarne concretamente alcune. Un’ipotesi di lavoro, questa che trova il conforto di Maiorano, ma con una serie di interessanti distinguo e osservazioni aggiuntive: Occhio a non assolutizzare l’incidenza della gradazione: i Lambic (genere dimenticabile in cantina per eccellenza) non sono, in media, questi gran cingolati per tenore alcolico. Piuttosto, detto ovviamente dell’acidità, che in questo caso evidentemente pesa (in positivo), porrei attenzione a quanto una birra sia stata già, passatemi il termine, strapazzata (in particolare sottoposta a processi ossidativi) prima della messa in commercio, nella fase di gestazione; e in questo senso le fermentazioni spontanee classiche, di stampo belga, rappresentano di nuovo l’esempio migliore rispetto a ciò che intendo dire. Un pensiero confermato sul campo da Michele Galati, che si è trovato a stappare una creaturina il cui contenuto alcolico era pari ad appena 3.5 in volume, il cui anno di nascita era il 1996 e il cui assaggio risale allo scorso gennaio: Si tratta della primissima interpretazione di Xyauyù: una sorta di test iniziale effettuato da Baladin, sulla scorta del quale nascerà poi, nel 2004, la versione attuale; ma che già in quella formulazione d’esordio presentava l’elemento delle ossidazioni a monte, grazie al quale, alla prova del calice e dopo quasi un quarto di secolo, mostrava una longevità incredibile. Longevità alla quale può giovare infine un ulteriore aspetto, quello della struttura del prodotto: tanto più robusta, tanto più funzionale alla sua conservazione. Né da marginalizzare – questa la chiosa di Colonna – un altro paio di fattori. Primo, il contributo positivo di malti scuri e caramellati, i quali, in quanto tali, si prestano meglio a ricevere modificazioni ossidative; secondo, il principio per cui, comunque, di qualsiasi bottiglia occorre saper cogliere il momento del picco evolutivo: il fatto che sia invecchiabile non significa che lo sia per un numero indefinito di anni.
Cosa non invecchiare
Archiviato il capitolo precedente, quello che abbiamo appena aperto può essere affrontato in parte per sottrazione, individuando la materia prima probabilmente meno idonee alle maturazioni in bottiglia al di fuori del perimetro tracciato per circoscrivere tipologie e specificità più vocate. Si autoescludono – riprende Polini – anzitutto territori quali quelli occupati da Helles, Pils, Golden Ale, Witbier, nonché Saison e Session Ipa su base chiara. Genere, l’ultimo, che peraltro offre il destro per focalizzare un altro requisito sensoriale di partenza poco portato all’invecchiamento: una costruzione olfattiva nella quale l’elemento cardine sia rappresentato da note che fresche sono e che tali devono mantenersi, non perdendo vigore in assoluto né alterandosi nel senso di un incupimento. Implicito quanto evidente è il riferimento agli apporti del luppolo. Ma l’argomento vale anche per impronte odorose di diversa natura, quali quelle fruttate: Non a caso – conferma Maiorano – tra i Lambic i risultati meno brillanti li abbiamo a carico di Kriek, Framboise e varianti più moderne di questo segmento. Considerazioni, quelle fin qui espresse, sulle quali concorda Galati, apponendo peraltro un pensiero aggiuntivo: Ogni bottiglia messa a riposo è un tiro di dadi, un azzardo: perché (oltre all’aspetto di un valore non monetizzabile nei tempi regolari), va tenuto presente come, pur presentando tutte le condizioni di una buona evoluzione nel tempo, la storia di quella bottiglia sarà una vicenda unica, sulla quali incideranno variabili non sempre e non tutte controllabili. Merita di essere messo in evidenza – sottolinea Colonna – un ulteriore principio generale: non è che qualsiasi birra, in quanto di pregio o d’interesse, ha le carte in regola per affrontare la cantina. Parlando ad esempio di Franconia, per citare un ambito a me particolarmente caro, non troviamo prerequisiti in tal senso tra le Schlenkerla.
Come invecchiare
Insomma, unendo spunti di riflessione teorica e dati consegnati dall’esperienza, un mosaico del “cosa invecchiare” si riesce a comporlo. Inevitabile, a questo punto passare a tracciare un mini-vademecum concernente le modalità operative da osservare per avviare le proprie birre lungo un percorso di maturazione che abbia esiti positivi. E a questo riguardo le parole d’ordine, sulle quali i nostri ospiti concordano sono soprattutto quattro: temperatura e umidità costante; assenza di luce nonché di sostanze caratterizzate da odorosità intense e acute. Maiorano: I locali che io posso mettere a disposizione delle sperimentazioni sulla resistenza al tempo sono mantenuti rigorosamente al buio, così da ridurre al minimo il rischio che le radiazionì, anche delle lampade, portino i deterioramenti che sappiamo bene possano intervenire esponendo il vetro all’illuminazione. Quanto al calore eccessivo o eccessivamente variabile – aggiunge Polini – si tratta di un nemico da tenere alla larga. Guai agli shock termici, ad esempio prendendo una birra dallo scaffale, mettendola in frigorifero e poi togliendola da lì per riporla di nuovo in cantina. E quest’ultima non dovrebbe superare una soglia oltre i 12-15 gradi centigradi. Riguardo a ciò, si può porre l’esigenza di impianti di regolazione: ovviamente anche in ordine all’umidità. La quale, aggiunge Colonna, non dovrebbe essere troppa (e noi a Trastevere lo sappiamo bene: avendo il fiume accanto abbiamo dovuto intervenire con deumidificatori e impianti di termoregolazione) né troppo poca: i pericoli da scongiurare sono quelli della formazione di muffe a carico dei tappi a corona come di quelli di sughero, e, d’altra parte, in questi ultimi, la loro perdita di volume a causa di un’aria sconvenientemente asciutta. La condizione ideale sembrerebbe attestarsi su valori tra il 60% e il 75%: insomma, se ce ne fosse bisogno non fatelo nella credenza di casa, ribadisce Manuele. All’Abbazia di Sherwood – aggiunge Galati – ho un box dedicato con il soffitto al di sotto di un giardino, che funge da protezione, col suo strato di erba e terreno. Così il termometro non scende oltre un minimo di 13 gradi d’inverno e non eccede i 18 in estate, il cui pregio ulteriore è di trovarsi in una posizione naturalmente ventilata. Precondizioni privilegiate, alle quali occorre prestare attenzione: attraverso i tappi – conclude – le bottiglie hanno uno scambio con l’ambiente circostante. Il quale perciò non dev’essere invaso da interferenze odorose: il riferimento è, per capirci, la cantina da vino e non da salame.
Il mercato vintage
Ma come funziona il mercato della birra vintage? Da chi è composto e quale ruolo può occupare nell’economia di un pub specializzato? Da questa angolazione, cioè dal punto di vista dei proprietari dei locali consacrati all’invecchiamento, la motivazione che spinge a impegnare tempo, spazi e risorse a questo segmento è sostanzialmente il coinvolgimento personale, fatto di curiosità e passione. Teniamo ben presente un dato strutturale: la clientela è costituita da un distillato assai ristretto della platea complessiva dei fruitori di birra; da quelli preparati, grazie al rispettivo percorso personale svolto come consumatori consapevoli e informati, a trovarsi di fronte bottiglie – con l’eventualità di pagarne un costo (che può non essere irrilevante, trattandosi di merce in linea di massima rara) – la cui età anagrafica eccede largamente il termine minimo di conservazione (TMC), soglia oltre la quale il produttore considera il rispettivo prodotto poter aver perso le caratteristiche organolettiche originarie. In sintesi, si parla di una nicchia. Di certo non è qui – conferma Polini – che maturi l’introito con cui far vivere il locale e che ci lavora. Però è, quantomeno, un biglietto da visita che dà una qualifica del tutto particolare. Considerazioni riprese da Maiorano: la dedizione che implica la pratica delle maturazioni trova rispecchiamento, e soddisfazione, in coloro che, dall’altra parte del bancone, ti seguono e ti apprezzano anche per questo filone. Certo, spiace poi constatare come, in rete, si scateni, a fronte della natura del tutto speciale dei pezzi in questione, una sorta di asta tale da far schizzare i prezzi a livelli esorbitanti. Noi rivenditori diretti non assecondiamo questa logica né mai lo faremo. Insomma, una serie di fattori a corollario che possono condurre, è il caso di Galati, a una scelta di sostanziale rinuncia alla vendita del vintage. Il progetto – dice – era partito nel 2005; poi ho preso atto di alcune difficoltà in cui ci s’imbatte quando si trattano bottiglie oltre TMC. Perché, certo, il consumatore è avvertito a dovere; ma poi può capitare comunque che non resti soddisfatto e che esiga la sostituzione del prodotto. Ho deciso quindi di tenere le birre messe a dimora, ma di aprirle solo in occasioni speciali: qualche laboratorio; la visita di amici”. Simile, seppur non identica, la parabola seguita da Colonna: ai tempi del Bierkeller, un circolo di cultura birraria nato al Testaccio come costola del Macche, avevamo un seminterrato asciutto e ci davamo dentro con la raccolta di esemplari da invecchiamento. Erano gli anni attorno al 2004 e immediatamente seguenti: dopo quella piccola grande epopea, il filone si è man mano affievolito. Non me la sento di puntare stabilmente sul vintage, specie a fronte della concorrenza del web, che pompa i prezzi di prodotti, tra l’altro non dando garanzia alcuna su come siano stati maneggiati, tali da essere inevitabilmente soggetti a una forte aleatorietà. Pur con tutte le cure del caso, a volte, prima di aprire, devi farti il segno di croce: e allora preferisco farlo come come esperienza conoscitiva da condividere con qualcuno, un amico o un cliente col quale c’è stato uno scambio piacevole.
Le sorprese, quelle belle (e quelle no)
E veniamo a una parte della nostra chiacchierata che potremmo definire cronistica. Abbiamo chiesto ai nostri interlocutori di raccontarci qualche episodio di spicco, non solo in quanto sorprendentemente brillanti, ma anche, magari, perché particolarmente deludenti. La prima palla a Galati: nel corso di una verticale di Stille Nacht, dal 2006 a salire, il millesimo più anziano si è rivelato quello più in forma, altri abbastanza interessanti, altri ancora proprio giù di corda. Parlando di Eylenbosch, splendida una Gueuze di 40 anni (era del 1979), assai meno un Faro del 1987. Belle anche le prestazioni della Old Nick, pur essendo un Barleywine di non elevatissima gradazione, siamo sui 7,2. E sempre in tema di Barleywine, interessante una doppia apertura celebrata al The Dome di Nembro, nel 2012, con al centro della scena due edizioni speciali di Bass n°1, entrambe con tappo in sughero e nate in realtà da una medesima cotta: quella avviata nel 1902 dal re Edoardo VII, da poco incoronato e giunto in visita allo stabilimento. Di quel batch una parte minore venne messa in commercio già nel 1905 con il nome di King’s Ale, mentre per il confezionamento della porzione più consistente si attese l’incoronazione di Giorgio V, nel 1911, quando anche alcuni imbottigliatori autorizzati poterono porre in vendita le rispettive quote, una delle quali assunse il nome di Coronation Ale. Ebbene mentre quest’ultima dimostrò di non aver retto l’urto dei decenni, la prima era in condizioni di forma assolutamente bevibili. Quanto a Maiorano: ho lavorato con prodotti estremamente diversi e in condizioni, talvolta, di stress intenzionalmente cercato, perché ho sempre voluto testare con una certa spregiudicatezza. Perimetro Lambic a parte, tra le alte fermentazioni si comportano egregiamente le Westvleteren 8 e 12, oltre alla Rochefort 10; meno, invece, insieme a Flemish Red e Oud Bruin, cosa di cui son rimasto stupito, altre trappiste, ma con alcune felici eccezioni: Orval, resistenza notevole, e Westvleteren Blond, quest’ultima, pur dovendo mettere in conto di perdere la componente olfattiva di timbro luppolato, da incorniciare tra le sorprese; accanto, peraltro, alla Gouden Carolus Cuvée Van De Keizer Imperial Dark della scuderia Het Anker. Ma rasenta l’incredibile la longevità dimostrata dalla Chimay tappo blu (Grande Réserve nei formati da 75 centilitri) che dal 1992, anno di messa in commercio, avevo a Nicorvo, non nella cantina dedicata bensì nella sala di somministrazione, esposta perciò a shock termici, luce permanente e (fino a un certo punto) addirittura al fumo. Ebbene, scaduta nel 1997, è stata aperta nel 2009: da rimanere a bocca aperta!”. Palla adesso a Polini: il probabile picco dei miei diari di invecchiatore è rappresentato da una Barclay’s Russian Imperial Stout del 1967; a ruota direi un’altra birra della medesima tipologia, la Good King Henry Special Reserve targata Old Chimneys, affiancata dalla Gueuze di casa Eylenbosch. Non così strepitose, ma degne di nota, pur avendo strutture materiali più esili, una Scotch Ale speziata, la Jacobite Ale della gamma Traquair House, e una Doppelbock scura, la Celebrator firmata da Ayinger. Tra le performance meno scintillanti, già dopo 3 anni, quelle delle etichette facenti capo all’abbazia trappista di Chimay. E infine Colonna: voglio ricordare una bevuta spettacolare: quella fatta nel 2012, ero insieme a Luca Giaccone e Leonardo Di Vincenzo, di una Lou Pepe Framboise confezionata da Cantillon nel 1998. Una favola!”.
In vetrina
E chiudiamo puntando i faretti su alcuni dei prodotti reperibili attingendo dalle cantine dei publican protagonisti di questo approfondimento. Partiamo da Galati, che ha specificato come la sua riserva sia dedicata non alla vendita, ma alle occasioni speciali. Nonostante questo, all’Abbazia di Sherwood ci sono ad esempio delle Thomas Hardy’s di millesimi quali il 1978, il 1979 e il 1986. E nonostante siano sistemati su uno scaffale proprio nel locale di mescita, all’apertura si rivelano sempre in palla. Quanto a Colonna, per ragioni come abbiamo visto simili, la riserva attuale conserva solo una porzione superstite di quella che fu ai tempi d’oro. Comunque include alcune Eylenbosch di anni fino al 1984, alcune prime edizioni della Pannepot targata de Struise, alcuni Barleywine inglesi tra cui Thomas Hardy’s. Nel caso di Maiorano la cambusa abbonda in Lambic: Cantillon Bruocsella, le etichette più rappresentative di 3 Fonteinen, lo Oude Lambiek di de Cam, la Gueuze Black Label di Girardin, solo per fare qualche esempio; e poi altri classici dal Belgio stesso o dalla tradizione inglese, come Westvleteren e Thomas Hardy’s. Un assortimento, nelle sue articolazioni, ritrovabile anche sotto la regia di Polini, che dispone (sempre a titolo di campionatura) di referenze quali la Harveys Imperial Extra Double Stout, la stessa Thomas Hardy’s, la Harvest Ale targata J.W. Lees, la Orval e la Pannepot di de Struise.