Il successo della birra analcolica negli Stati Uniti
Da più parti, nel mondo del vino come in quello della birra, lo si sostiene con convinzione: il 2019 sarà l’anno dell’esplosione dei prodotti non solo a bassa gradazione, ma propriamente analcolici. Abbiamo quindi voluto addentrarci in un inizio di esplorazione lungo i percorsi di questo segmento che gli analisti danno in sensibile crescita, partendo da quella porzione dello scenario globale che è spesso laboratorio di gestazione delle tendenze destinate poi a dispiegarsi sull’intero panorama internazionale, influenzandone le dinamiche. Parliamo, lo si sarà capito, degli Stati Uniti e del loro immenso mercato interno.
Ricordiamo che la lancetta del contagiri etilico per parlare di birra analcolica deve puntare sotto delle soglie minime stabilite nei diversi quadranti territoriali in cui ci si trovi a operare: in Italia l’1,2%, in Gran Bretagna lo 0,05%, negli Stati Uniti mediamente lo 0,5%. Ora, sulla scorta dei risultati, decisamente netti, forniti da specifiche ricerche di mercato (rivolte in specie ai consumatori delle fasce più giovani), i produttori hanno definitivamente fiutato come la pista non solo del low alcohol, ma del no alcohol tout court sia un sentiero da battere con attenzione.
Primi a muoversi sono state le realtà del settore industriale e commerciale (storica l’iniziativa Tourtel targata Peroni, oggi etichetta del gruppo Asahi) ovvero i vari Beck’s (AB Inbev, con la Blue), Binding-Brauerei (Oetker Group, con la Clausthaler), Jever (ancora Oetker Group, con la Fun), Heineken e Carlsberg (con le loro 0.0, nome identico per entrambi i brand). Ma, sempre meno svogliatamente, anche i marchi non appartenenti al segmento delle major labels sta operando proprie manovre sul fronte delle gradazioni bassissime o nulle.
Nelle terre dello zio Sam il filone è perseguito non solo dai colossi come AB InBev, con la Budweiser Prohibition Brew, ad esempio, ma anche dal settore craft, visto che ormai le ricerche di mercato parlano chiaro puntando i fari verso le bassissime latitudini etiliche come confermano le conclusioni di una ricerca condotta nel 2017 su un campione rappresentativo di giovani appartenente alla fascia anagrafica tra i 16 e i 24 anni. L’indagine ha rilevato infatti come il 27% degli appartenenti a quel gruppo anagrafico non beva alcolici di alcun tipo, a tale risoluzione indirizzato dalla scelta volontaria di un cambio di abitudini in favore di una vita calvinista, improntata all’esercizio fisico e alla sobrietà dei comportamenti alimentari.
Rispetto alla situazione antecedente questi recenti sviluppi, il quadro ha iniziato a cambiare anzitutto con l’avvento, nei circuiti di distribuzione del Big Country, di alcuni apripista provenienti dall’Europa (avendo il vecchio continente, una volta tanto, anticipato le dinamiche d’oltreoceano e mosso già da tempo passi significativi sulla via della morigeratezza): marchi quali quelli di Braxzz BV (Amsterdam, Olanda), Big Drop (Ipswich, Inghilterra) e BrewDog (Ellon, Scozia). A ruota ha iniziato poi a formarsi, e a crescere, la schiera dei produttori a stelle e strisce decisi a impegnarsi per soddisfare la sete dei consumatori alcohol free. Ecco così che oggi abbiamo sullo scaffale una discreta varietà di firme e di etichette, un assortimento di cui diamo, di seguito, una selezione a titolo puramente esemplificativo.
La Wellbeing di Maryland Heights (Missouri) appone il proprio sigillo alla Heavenly Body Golden Wheat (un’American Wheat) e la Hellraiser Dark Amber (un’American Amber Ale), entrambe da 0,5 gradi. La Athletic di Stratford (Connecticut) risponde con la Run Wild Ipa (una Session da 0.45 gradi trattata a suon di gettate di Citra e Mosaic), con la All Out Stout (una’American Stout) da 0.5 e con la Upside Dawn (una Golden Ale) da 0,4. Sempre sulla soglia degli 0,4 gradi si ferma la Chandelier Red IPA della Surreal di Campbell (California); mentre saliamo (si fa per dire) di nuovo allo 0,5% con la Oatmeal Stout della scuderia Bravus di Newport Beach (California).