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Il lato scuro della Germania: Dunkel e Schwarzbier

Malgrado i passi da gigante che la cultura birraria sta compiendo negli ultimi anni in Italia, molti consumatori spesso operano ancora una sineddoche cromatica che li porta a chiamare nera ogni birra scura e a ritenerla invariabilmente “forte”, sia per quanto concerne il tenore alcolico, malgrado la più famosa birra scura al mondo sia una stout che nella sua versione “draft” titola 4,2% alc., che per quanto riguarda l’intensità aromatica.

Le tonalità cromatiche sono invece notevoli e una lunga e radicata tradizione di birre “diversamente chiare”, come direbbe qualche opinionista troppo attento alla politically correctness, si può trovare in terra germanica, tra la Baviera, patria della Dunkel (termine che significa letteralmente “scura”) e la Turingia, luogo d’origine della Schwarzbier (la cui traduzione è “birra nera”). Questi stili hanno inoltre legami e affinità con la Rotbier (“birra rossa”) tipica di Norimberga, capitale della Franconia, e con la Tmavy (“scura”) della Boemia. D’altro canto, nei tempi più remoti tutte le birre erano, secondo i parametri di oggi, scure: l’essiccazione dei malti con esposizione diretta alla fiamma viva non permetteva infatti ai preziosi chicchi di mantenere un colore solo dorato o addirittura paglierino.

La Dunkel, che è ancora oggi una gloria birraria di Monaco e dintorni malgrado nei consumi sia stata surclassata dalla ben più giovane Helles (che vuol dire semplicemente “chiara”) è stata la prima lager della storia: l’invenzione bavarese della bassa fermentazione nasce, come molto spesso, in modo empirico e da esigenze eminentemente pratiche. In questo caso l’obiettivo di fondo era evitare la circolazione di birre di cattiva qualità con il conseguente malcontento popolare: il Reinheitsgebot del 1516 che estese all’intera Baviera una legislazione sussistente per la città di Monaco fin dal 1487 fu un passo compiuto in questa direzione valorizzando la miglior resa organolettica del malto d’orzo rispetto ad altri cereali ed esaltando le virtù conservanti del luppolo a discapito di altri aromatizzanti. L’ulteriore mossa fu intervenire nel processo di fermentazione, che se pur non poteva certo essere controllato come avviene oggi grazie alle scoperte di Pasteur, era largamente intuito nella sua sostanza e importanza, tanto da essere citato in un’ordinanza municipale di Monaco del 1551 che sollecita i produttori di birra a monitorare il processo fermentativo e non lasciarlo al caso. Due anni più tardi, nel 1553, dopo aver lungamente osservato come le birre brassate in inverno fossero migliori e più stabili di quelle prodotte in estate, i duchi di Baviera emanano una nuova legislazione che impedisce la birrificazione nei mesi caldi e impone uno stop produttivo dal 23 aprile, festa di San Giorgio, al 29 settembre, giorno di San Michele. La più divertente tra le conseguenze di questa legislazione è la nascita de facto dell’Oktoberfest, molto prima del matrimonio tra Ludovico I di Baviera e Teresa di Sassonia, come svuotafusti (ma sarebbe più corretto dire svuotabotti o svuotacantine) ante litteram, ma la più importante è sicuramente la creazione empirica della bassa fermentazione: producendo solo nei mesi freddi e stoccando barili e botti in magazzini (lager in tedesco significa originariamente “magazzino”) sotterranei refrigerati con blocchi di ghiaccio prelevati durante l’inverno da monti, fiumi e laghi ghiacciati, infatti, i birrai monacensi selezionarono ceppi di lievito in grado di lavorare a basse temperature e che si depositavano sul fondo delle vasche di fermentazione al termine del loro lavoro. Queste prime lagerbier erano ovviamente scure perché nessuno al mondo era in grado di produrre malti chiari a metà Cinquecento, è assai improbabile, invece, che fossero chiamate Dunkel perché mancava un’alternativa più chiara con cui confrontarle: l’attuale denominazione dello stile non può che essere nato tra il 1841, quando Spaten presentò all’Oktoberfest di quell’anno la prima Märzen “moderna” frutto (anche) dell’opera di spionaggio industriale compiuta otto anni prima in Inghilterra dal patron Gabriel Sedlmayr in compagnia dell’amico e collega viennese Anton Dreher e finalizzata proprio a carpire i segreti delle Pale Ale britanniche e dei loro malti così chiari, e il 1894, quando sempre Spaten lanciò sul mercato la prima Helles dopo cinquant’anni di infruttuosi tentativi di imitazione delle Pils boeme. Le Dunkel di oggi si presentano di colore tra il ramato carico e il mogano, con riflessi che possono ricordare la nocciola e la castagna; un buon cappello di schiuma avorio, come in ogni birra tedesca che si rispetti, è altamente auspicabile. Il malto di tipo Monaco ne è l’ingrediente basilare e il protagonista del bouquet, con aromi che possono ricordare un toast ben abbrustolito, la nocciola, le castagne arrostite e il pane di segale senza arrivare all’opulenza del caramello, sentore che, sebbene presente in alcuni esemplari commerciali di birrifici monacensi, non è del tutto desiderabile e non deve assolutamente essere dominante. La luppolatura dev’essere percepibile, a livello olfattivo, solo come un delicato contrappunto sullo sfondo: la presenza del verde rampicante è altresì decisiva in bocca come attore di spalla che, sia pur mai in primo piano, bilancia la prevalenza dolce dei malti ed evita il fatale rischio della stucchevolezza. Anche in bocca infatti i malti Monaco sono i mattatori, con sentori coerenti con quelli percepiti all’olfatto accompagnati da una buona carbonazione e da un corpo piuttosto strutturato, grazie al generoso residuo zuccherino, a dispetto del moderato grado alcolico, che è solitamente attorno ai 5% ABV. Non sorprende che, in un epoca in cui birre molto luppolate e con attenuazioni spinte sono sulla cresta dell’onda, le Dunkel non godano certo di hype né siano protagoniste dei sogni erotici dei beer geek. Per converso, sono uno stile che viene solitamente gradito dal consumatore italiano esterno al circuito dei nerd. Come per molti stili tradizionali, però esistono significative variazioni regionali: se a Monaco e in Baviera sono generalmente filtrate (una Dunkel non filtrata sarà chiamata Keller Dunkel), corpose e con una dolcezza più spiccata, in Franconia prevalgono versioni non filtrate e decisamente più secche e luppolate, con dosaggi di luppolo da amaro anche doppi o più rispetto alle cugine più meridionali.

Diversa origine e storia hanno le Schwarzbier, birre tipiche della Turingia ma attestate anche nella limitrofa Alta Franconia. Famosi estimatori della birra scura di Bad Köstritz, ove si trova il più antico birrificio tutt’ora operante specializzato nello stile, furono il geografo settecentesco Anton Friedrich Büsching, che ne paragonò il colore a quello di un vino rosso invecchiato (a dispetto del nome, infatti, le Schwarz non sono proprio “nere”) e Johann Wolfgang Goethe, francofortese trapiantato a Weimar, nel cuore della Turingia, che la consumava per ristabilirsi quando qualche malanno gli toglieva l’appetito. Secondo storici della birra come il tedesco Horst Dornbusch e l’austriaco Conrad Seidl, le fortune delle Schwarz si sono incrociate, tra l’Ottocento e i primi del Novecento, con quelle delle enigmatiche German Porter, nate sull’onda del successo delle scure londinesi: erano lager scure che venivano poi rifermentate con lieviti da alta fermentazione e, in alcuni casi, Brettanomiceti.

La Prima Guerra Mondiale rese però “antipatriottico” qualunque riferimento a produzioni inglesi e quindi le German Porter sparirono presto dalla circolazione e, con esse, la sovrapposizione e confusione con le Schwarzbier, che rimasero confinate nelle loro zone di origine. Fino alla caduta del Muro di Berlino, infatti, questa tipologia era pressoché sconosciuta in Germania Ovest, con l’eccezione dell’area tra Bamberga e Kulmbach. Fu solo l’acquisto, avvenuto nel 1991, del birrificio di Bad Köstritz da parte di un colosso come Bitburger a dare una distribuzione e una conseguente notorietà nazionale alle Schwarzbier. Dal punto di vista organolettico, appurato che il colore di queste birre è bruno scuro, sovente arricchito da bei riflessi rubini e coronato da un’abbondante schiuma ocra o beige, l’aroma è imperniato su note tostate e torrefatte meno intense e pungenti di quanto l’aspetto farebbe presagire. Cacao, caffé d’orzo o caffè “lungo”, nocciole tostate e ricordi toffee trovano infatti spazio senza arrivare al caffé espresso, alla liquirizia o al cioccolato fondente.

Se una sottile e fragrante vena erbacea di luppolo supera la soglia di percezione è un pregio che dona ulteriore complessità aromatica. Il bouquet non è insomma in alcun modo sovrapponibile a quello di una Porter o men che meno di Stout: secondo il già citato Dornbusch, anzi, a narici aperte e occhi chiusi o bendati si dovrebbe far fatica a distinguere una Schwarz da una Dunkel. La ragione di questo apparente paradosso risiede ovviamente nella miscela dei malti: accanto a una base di malto Pils e a una significativa presenza di Monaco, la nota distintiva è data infatti da malti tostati a temperature meno estreme di quanto avvenga con il Black Malt tipico delle scure britanniche. Uno stratagemma tradizionalmente usato per ottenere colore ma non la tipica amarezza “bruciata” e l’astringenza dei malti più scuri è il cosiddetto cold steeping ossia la lunga infusione dei chicchi in acqua fredda con successiva aggiunta del liquido, naturalmente colorante, in bollitura: le malterie oggi mettono a disposizione estratti di malto scuro deamarificato che viene massicciamente usato nelle Schwarz tedesche più commerciali, a detrimento però della complessità organolettica che solo un ben studiato mix di malti sa donare. In bocca vi è una coerenza con l’olfatto: le tostature sottili e non troppo spinte dominano la scena, bilanciate da una moderata dolcezza maltata.

Assolutamente inopportuno qualsiasi sconfinamento nell’astringenza, e anche l’acidità data dai malti scuri non deve essere percepibile al palato. La carbonazione è viva e presente e, a sostanziale parità di grado alcolico con le Dunkel, le Schwarz mostrano una secchezza e snellezza di corpo decisamente più spinte e una chiusa luppolata più audace e assertiva. Probabilmente sono queste due caratteristiche a rendere le Schwarz più seducenti e appetibili per birrai e consumatori craft. Ne esistono infatti numerose interpretazioni da parte di produttori artigianali statunitensi e italiani, non di rado caratterizzate da una spinta aromatica data da una generosa luppolatura a fine bollitura o a freddo, che, pur allontanandole dalla tradizione, dona spesso una complessità davvero intrigante.