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IBU, il (non) indice dell’amaro della birra

Nella lenta ma inesorabile ondata di riflusso, dopo la corsa al riarmo nell’uso, e nell’abuso, del luppolo che ha caratterizzato gli ultimi decenni, la necessità di alcuni miti da sfatare e di precisazioni da apportare è già stata abbondantemente messa a tema. Ma si sa, qualcuno può ancora incappare nell’errore; e poi anche dagli USA rilanciano il tema: stiamo parlando delle IBU, International Bitternes Units. 

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Anche gli “hop fans” più accaniti dovrebbero tenere a mente che il valore numerico indice delle unità di amaro in una birra, dice non molto, davvero non molto rispetto al carattere sensoriale di una birra. A tal punto che due stessi produttori americani si spingono ad auspicare pubblicamente un abbandono delle cifre e un recupero, invece, delle parole, quando si tratta di dare informazioni effettive circa la descrizione organolettica di una bevuta. I sostenitori di tale posizione sono Jack Harris e Jesse Friedman, cofondatori, rispettivamente dei marchi statunitensi Almanac (San Francisco, California) e Fort George (Astoria, Oregon). Le loro argomentazioni, in sintesi, si articolano in quattro punti.

1. Il valore delle Ibu riportato in etichetta quasi sempre non è frutto di una reale misurazione (effettuabile mediante un’analisi spettrometrica sugli iso-umuloni), ma piuttosto nasce dall’applicazione di formule (ben più immediata che non il dover prendersi la briga di spedire campioni a laboratori specializzati) e dai conseguenti calcoli aritmetici, decisamente semplici, ma – a essere onesti – anche passibili di rivelarsi alquanto approssimativi.

2. Quando anche il dato numerico fosse esatto, non dice comunque con precisione alcuna “quanto una birra sia amara” (è la richiesta più frequente da parte dei fanatici): perché non tiene conto degli elementi gustativi controbilancianti (alcol, caramellature, proteine, zuccheri non fermentabili o non ancora svolti, corporeità generale), né di quelli incrementanti (l’amaro da cereali torrefatti, ad esempio, o la composizione chimica dell’acqua). Inoltre – per le stesse ragioni appena citate – quel dato meramente numerico non comunica alcuna informazione relativamente alla natura delle “sensazioni bitter” in gioco che possono essere di timbro vegetale, resinoso o tostate, o ancora, di espressione elegante o aggressiva, etc..

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3. Il valore delle IBU non può minimamente rispondere a una domanda posta con questa formulazione: “Quanto è luppolata questa birra”? Perché – ecco un frangente in cui le parole sono indispensabili – occorre prima capire il senso della domanda stessa. Si sta chiedendo quanto quel prodotto sia amaricante o quanto rechi in sé gli aromi tipici del luppolo? E se l’interpretazione esatta è la seconda, a quali varietà di luppolo si allude?

4. Per tutto quanto fin qui esposto, il riferimento numerico delle IBU non può essere un descrittore plausibile, e dunque va riportato – concludono Harris e Friedman – alla sua dimensione più ragionevole: quella di un utile strumento da “backstage”, da sala cottura. Utile ad esempio, a chi brassa, come uno dei parametri verificando i quali si può capire se le cotte che escono dal proprio impianto presentino parametri di base costanti nel tempo, presupposto indispensabile per una produzione coerente a se stessa nelle connotazioni sensoriali.

Insomma, la crociata anti-IBU in etichetta negli Stati Uniti è già partita, attecchirà anche in Italia?