Gli acidi grassi nella birra
Cosa ci fanno degli acidi grassi nella mia birra? Come ci sono finiti? Questa è la reazione che ho avuto la prima volta che mi sono imbattuto in questa classe di composti organici mentre studiavo i difetti della birra. Per chi, come me, non è avvezzo alla chimica organica, gli acidi grassi fanno pensare all’olio, ai formaggi o ai grassi in generale, come quelli saturi da cui cerchiamo sempre di stare alla larga per via dell’effetto negativo che hanno sulla salute se consumati in dosi eccessive. Oli e grassi in realtà sono una miscela di diverse sostanze, caratterizzate dalla presenza di acidi grassi insaturi (gli oli) e acidi grassi saturi (i grassi). I primi sono liquidi a temperatura ambiente (come l’olio di oliva, l’olio di semi e via dicendo) mentre i secondi sono solidi (per esempio lo strutto). L’idea che queste sostanze siano presenti nella birra non è di per sé molto allettante, ma come vedremo gli acidi grassi costituiscono un nutriente essenziale per la buona salute del lievito e un precursore per prodotti metabolici dagli aromi anche piacevoli.
Tre sono le fonti degli acidi grassi che possono finire nella birra: orzo (o comunque un cereale), lievito e, in parte molto minore, luppolo. Gli acidi grassi sono fondamentali per il funzionamento delle cellule, sia per l’uomo che per le piante. Per questa ragione il chicco di orzo ne contiene una certa quantità, in genere inferiore al 3% in peso del chicco secco (arriva anche al 6% in cereali più grassi come l’avena). Per la maggior parte, il chicco contiene acidi grassi insaturi (oleico e linoleico). Quando viene macinato e messo in acqua calda per avviare l’ammostamento, una parte degli acidi grassi si scioglie nel mosto.
I processi di filtrazione che i birrai mettono in atto per rendere il più possibile limpido il mosto prima di avviare la fermentazione della birra servono anche a rimuovere una buona parte di questi acidi grassi, onde evitarne la trasformazione in composti dagli aromi non gradevoli una volta arrivati nella birra finita. Uno degli acidi grassi insaturi più temuti nel mondo birrario è l’acido linoleico, conosciuto anche come omega-6, che costituisce la maggior parte degli acidi grassi presenti nel chicco di orzo. È molto facile che arrivi nel prodotto finito se il processo di produzione non è ben gestito: una macinatura troppo fine che polverizza il nucleo del chicco e una filtrazione non adeguata del mosto prima della fermentazione possono portare discrete quantità di acido linoleico nella birra finita. Come mai l’acido linoleico è così temuto nel mondo birrario? Il problema non è tanto l’acido in sé, ma i prodotti che possono generarsi nel processo di produzione e maturazione della birra a partire da questo acido. Grazie alla lipossigenasi, un enzima presente naturalmente nel chicco d’orzo, l’acido linoleico può essere velocemente ossidato durante l’ammostamento andando a formare il precursore del temibile trans-2-nonenale (detto anche T2N). Questo composto, che strutturalmente è un’aldeide, ha una soglia di percezione molto bassa: anche se presente in piccolissima concentrazione, riesce a conferire alla birra quell’aroma di cartone bagnato tipico di tante lager industriali che acquistiamo sugli scaffali dei supermercati. Dato che è difficilissimo inibire completamente l’ossidazione a caldo dell’acido linoleico in fase di produzione (a quelle temperature, in presenza di lipossigenasi, basta una quantità minima di ossigeno per ossidare l’acido linoleico in pochi secondi), si cerca di portare in fermentazione un mosto il più possibile limpido e privo di acidi grassi ossidati in modo da ridurre la concentrazione del precursore del T2N. Il calore e l’agitazione delle bottiglie o delle lattine favoriscono la formazione di T2N, ragion per cui lo si ritrova spesso nelle birre industriali mal conservate sugli scaffali della GDO (nonostante le affinate tecniche di produzione volta a minimizzare l’ossidazione a caldo). Inoltre, la lipossigenasi viene facilmente denaturata dal calore, quindi è maggiormente presente nei malti molto chiari e poco tostati (tipicamente nel malto pilsner).
Ulteriore fonte di acidi grassi è il lievito, che ne consuma e ne produce durante il processo fermentativo. Tipicamente consuma quelli insaturi presenti nel mosto e ne produce di saturi, anche se gli equilibri tra le due tipologie dipendono molto dalle condizioni di fermentazione. Teoricamente, infatti, il lievito farebbe buon uso degli acidi grassi insaturi presenti nel mosto, utilizzandoli per la crescita cellulare. Si tratta infatti di componenti essenziali per la sintesi di grassi e steroli, fondamentali per la corretta funzionalità delle cellule. Tuttavia, per scongiurare il rischio di far emergere la temibile aldeide T2N nel lungo periodo, si evita di far arrivare acidi grassi in fermentazione. Anche perché il lievito è perfettamente in grado di produrre grassi e steroli in autonomia grazie al suo metabolismo interno quando si trova in presenza di ossigeno. Ragion per cui si preferisce ossigenare il mosto prima della fermentazione e lasciare al lievito il compito di autoregolarsi nella produzione degli acidi grassi necessari al proprio fabbisogno durante la fermentazione. Ciò non garantisce tuttavia sempre e comunque la completa assenza di acidi grassi nella birra a fine fermentazione. I lieviti Saccharomyces rilasciano per esempio una certa quantità di acido caprilico, che fortunatamente si combina per via enzimatica all’etanolo durante la fermentazione dando vita a un estere che ricorda l’aroma di ananas. In genere, quindi, la produzione di acidi grassi (saturi) dovuta alla fermentazione non porta difetti nella birra. Una significativa presenza di acidi grassi a fine fermentazione (con aromi sgradevoli tipo odore di vomito di lattante da acido butirrico, o formaggio andato a male da acido isovalerico) può essere un segnale di contaminazione. Ciò non toglie che questi acidi grassi, in presenza dei giusti enzimi (in genere prodotti dallo stesso lievito) e dando loro il giusto tempo, possano combinarsi con gli alcoli presenti nel mosto generando tutta una serie di aromi fruttati molto gradevoli (è quello che di fatto avviene nel lungo processo fermentativo dei lambic). Incredibilmente, anche il luppolo può contribuire con la sua buona dose di acidi grassi. L’ossidazione degli alfa acidi, sia in forma isomerizzata nella birra finita ma anche non isomerizzata nel luppolo non ancora utilizzato in produzione, porta alla formazione di acido valerico o butirrico (o isovalerico e isobutirrico), tristemente noti per il fastidioso odore formaggioso. Questa reazione richiede ossigeno ed è ovviamente velocizzata dal calore. Quindi ricordatevi di non lasciare la bustina del luppolo aperta a temperatura ambiente, altrimenti il destino della vostra birra sarà segnato.