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In fila per una birra: negli USA crescono le code davanti ai birrifici

Hold the line / Love isn’t always on time, cantavano i Toto. È un elemento imprescindibile della nostra vita quotidiana. Lo affrontiamo praticamente sempre: da adempimenti burocratici per scartoffie inutilmente utili al banco salumi in un supermercato, dallo studio dentistico all’autolavaggio. Situazioni di necessità regolamentate da uno dei meccanismi più antichi al mondo: la fila! Di norma vista come una delle più grandi macinature di palle esistenti, soprattutto per gli sfortunati accompagnatori delle donne cadute in quel vortice chiamato Ikea e che vogliono farsi cambiare al banco del servizio clienti, di sabato pomeriggio, il tavolino minimalista BÜRNA per quell’invisibile scheggiatura sull’angolino che no, amore, eh, non farmi storie perché chiunque entra in salotto la vede e sta proprio male, eh – anche se molto probabilmente finirà posizionato con una parte contro il muro. Ma veniamo a noi. Che c’entrerà mai la fila con la birra? Se siete geek, parecchio. Prima, però, facciamo subito chiarezza e scartiamo le circostanze più banali: siete in un posto affollato, volete bere qualcosa – pure un cocktail, dai – e c’è un po’ di gente prima di voi: fate la fila, aspettate, ricevete la vostra ordinazione, fine. Tutto ciò rientra in quell’ordinaria gestione di situazioni di necessità viste sopra e no, non ci interessa analizzarle o parlarne. Cambiamo scenario, e supponiamo allora che vogliate bere qualcosa di abbastanza esclusivo; che la faccenda sia abbastanza occasionale; che un numero abbastanza grande di persone abbia fatto la stessa vostra pensata; tradotto: vi aspetterà una fila abbastanza lunga.

Il quadretto della PtY è ben conosciuto, ma ne esistono tantissimi altri analoghi e sparsi per l’intera America. Me ne viene in mente uno in cui sono quasi incappato l’estate scorsa; dico quasi, perché ero in New England, e avevo appena appreso dell’imminente release della Dinner del birrificio Maine Beer Company. Casualmente, con amici, ci si trovava proprio in Maine un giorno prima del fatidico evento. Fu così che scattò la più ingenua delle domande: perché non andiamo a prenderla, magari a MEZZOGIORNO? Già, perché no? La Dinner non sarà la PtY (in realtà non saprei dirvelo, non avendo bevuto nessuna delle due), ma tra i geek fa la sua grandissima figura. Ambitissima e ricercatissima. Fatto sta che gli amici mi rivolsero lo sguardo bonario destinato allo scemo del villaggio che sostiene di aver catturato la luna, dopo averne guardato il riflesso in una pozzanghera; ci mancava soltanto il pat-pat di accondiscendenza sulla spalla. Potremmo essere lì per mezzogiorno – mi fa Mike, ridendo – e la avranno già finita da un paio d’ore, perché la gente va là dalle sei di mattina. Alla fine, in quei giorni, un piccolo assaggio del fenomeno l’ho avuto comunque: da Tree House, a Monson (Massachusetts), in un luogo che definire in the middle of nowhere suona eufemistico, ma di certo anche l’unico sulla Terra in cui Tree House viene venduto al pubblico, è prassi comune aspettare mediamente una quarantina di minuti per comprare lattine e growler – in numero limitato, ed è buona norma compilare un piccolo modulo su cui scrivere il proprio nome e la quantità desiderata per ciascuna birra, al fine di velocizzare il servizio.

Spostiamo avanti l’asse temporale a quest’anno. La Tampa Beer Week (TBW) è una mastodontica kermesse su scala cittadina prevista durante la prima metà di marzo, e coinvolge l’intero territorio dell’omonima baia. Locali e birrifici pullulano per l’intera settimana di eventi tra cui, manco a dirlo, tante release di roba dalla reperibilità esclusiva annuale se non addirittura one-shot. In pieno godimento della TBW scopriamo che, il giorno dopo, da Angry Chair avrebbero messo in vendita una birra a dir poco fuori di testa – il cui nome dice tutto: Barrel Aged Imperial German Chocolate Cupcake (BAIGCC). Meno di mille bottiglie, massimo una per acquirente, inizio ore undici. In serata chiedo a S., un buon amico locale, quale sarebbe stato un orario discreto per presentarsi lì e non rimanere a mani vuote. Mi risponde con nonchalance che lui e il suo gruppo si sarebbero messi in fila alle otto e mezza. Un tizio curiosissimo, che mi ricorda un personaggio di The Wolf of Wall Street, dice che invece lui avrebbe voluto essere tra i primi a sbrigarsela e quindi LE SEI E MEZZA poteva essere un orario più idoneo, tanto nell’attesa poteva lavorare col portatile. A metà tra lo sconvolto e l’affascinato, alla fine cedo alle lusinghe (della mia natura da psicopatico), e sai che c’è – mi dico – vaffanculo e proviamoci. Inutile dire che abbiamo scazzato totalmente il piano, che, puntualizzo, casomai vi foste venuto il dubbio, consisteva nell’opzione otto e mezza di S.: ci siamo attardati a colazione e siamo arrivati da Angry Chair alle nove e un quarto. La verità? Non lo vedi finché non ci credi. Son quelle informazioni che registri come assurde e le continui a ritenere tali, confinate in un immaginario così lontano che a pensarle ti appaiono sfocate e fumose, a livello de La Gare Saint-Lazare di Monet. Roba di altri pianeti, da seh, vabbè, figurati se davvero. Per poi toccare con mano e scoprire che sì, è tutto vero. Ed ha dell’irreale. La fila partiva dalla porta del birrificio e disegnava il perimetro di circa tre isolati interni rispetto alla strada principale – qualcuno aveva ben pensato di adibire il proprio cortile a mo’ di parcheggio per la modica cifra di cinque dollari ad auto. Un serpentone umano di persone, in buona parte sotto il sole (a marzo in Florida ci sono in media 27 gradi, e un’umidità da risaie della Lomellina), attendeva l’apertura della vendita: chi si era portato una sedia pieghevole da spiaggia, chi da bere, chi era lì fermo e basta. Ad occhio ci saranno stati seicento o settecento individui prima di noi. E mancava ancora un’ora e mezza prima che la fila potesse cominciare ad avanzare. E, particolare comico, il tizio curiosissimo della sera precedente era più o meno ventesimo. Tempo un rapido consulto e abbiamo deciso di mollare il campo; un po’ a malincuore, poiché avevamo parecchie faccende da sbrigare, un po’ perché conservavamo ancora un briciolo di lucidità. Ma ecco il retroscena: impegnati a fare tutt’altro, in un ufficio postale, ho ricevuto un messaggio da S. che mi informava dell’anticipo dell’inizio della vendita alle dieci e mezza e che, se fossimo ritornati, avremmo potuto prendere la birra senza aspettare più di tanto. Avevamo quasi terminato, Angry Chair distava nemmeno un paio di miglia, e io e la mia ragazza ci siamo giusto guardati negli occhi. Lo scenario da incubo aveva assunto contorni decisamente normali e, con solo venti minuti di attesa, la birra è stata nostra!

Il vero problema è che poi ci prendi gusto, e non ti dice sempre benissimo come la prima volta. Il giorno seguente, le ore di fila sono state quasi due per accaparrarci svariati bicchieri delle birre speciali servite al festival Barrel Aged tenuto da Cycle a St. Petersburg; e il giorno dopo ancora, durante la manifestazione principe della TBW – ovvero lo Hunahpu’s Day, celebrazione ufficiale della celebre birra di Cigar City e uno dei più grossi festival americani – siamo stati un’abbondante ora in fila per bere alcune esclusive produzioni di 3 Sons, al momento forse uno dei due nomi più acclamati, rari e ricercati in terra statunitense (l’altro è Toppling Goliath).

Dunque, vi chiederete, non c’è scampo per un geek? Prima o poi ti becchi il morbo della fila e ti ritroverai in un infinito circolo di attese di Beckettiana memoria, è così che funziona? Sarete dileggiati e insultati per l’eternità da presunti integerrimi che la birra non deve essere queste pagliacciate, come si fa ad essere così idioti da aspettare ore per una birra, solo gli americani possono fare cazzate simili (poco importa che poi quasi tutti aspetterebbero o hanno aspettato ore per l’inizio di un concerto, l’uscita di un libro, il lancio di un nuovo cellulare, come accade in tutti i paesi impostati sul consumismo)? Ebbene, no. Se non ci credete, continuate a leggere l’esperienza del mio caro amico Mike, persona intelligente e sincero appassionato da buoni vent’anni (lo stesso che mi ha deriso quando pensavo di andare alla mezza da Maine Beer Company per comprare la Dinner).

Senti qui. Tante volte mi era capitato di aspettare ore per comprare una birra. La prima volta mi pareva una cosa divertente, ma poi lo fu sempre meno, finché ogni volta mi dicevo che sarebbe stata l’ultima. Il punto di rottura lo raggiunsi ad una release della Kate the Great di Portsmouth. Era il 2009, forse il 2010, non ricordo di preciso… ma fu l’anno in cui quella birra era al top della sua popolarità. Il fatto è che la volevamo a tutti i costi, poiché sapevamo che altrimenti sarebbe stato durissimo scambiarla. Così decidemmo di andare alla release. Ci dovemmo prima prenotare, perché comunque era richiesta una registrazione preliminare. Poi arrivò il gran giorno. Ci svegliammo alle tre del mattino per essere al birrificio quasi alle cinque, poco prima dell’alba. Ora, devi sapere che in New Hampshire fa davvero freddo in quel periodo… roba da meno quindici gradi. Eravamo coperti quasi come sciatori, ma a stare fermi non è che si stesse caldi e dopo un paio d’ore eravamo congelati fino alle palle. E c’era gente che aspettava là dalla mezzanotte. La fottuta mezzanotte, non so se mi spiego. E sai che successe? Alle otto e mezza il birrificio apre e ci dicono che rimandano la vendita. Non so che cazzo era successo… forse problemi con le prenotazioni, si scusavano ma niente birra, ci avrebbero rimandati a un giorno successivo. Fu un miracolo che non ci venne una polmonite e per cosa…? Per niente!!! Fu una tale delusione che decisi che non avrei più corso il rischio di fare una cosa così stupida. Okay, magari mi perdo una birra? Un giorno o l’altro la ritrovo. O forse no. E allora pazienza… ne ho tante altre.

Quindi, tirate un sospiro di sollievo: c’è speranza e dalle file si può guarire. Parola di geek.

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