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Fermentazioni esplosive: attenzione al Saccharomyces Diastaticus 

La richiesta multimilionaria del birrificio americano Left Hand Brewing nei confronti del celebre produttore di lieviti White Labs, conosciuto nell’ambiente birrario come uno dei più popolari distributori di lieviti per birrifici ed homebrewers, è datata ma degna di riflessione. Per chi se lo fosse perso il birrificio yankee nel 2017 richiese un risarcimento di 6 milioni di euro per la tribolata contaminazione microbiologica della loro Milk Stout Nitro, afflitta da fenomeni di sovrasaturazione e pericolose deflagrazioni che avrebbero portato, in pochissimo tempo, al ritiro dell’intero lotto presente sul mercato e alla chiusura temporanea del loro stabilimento con lo scopo di bonificare l’intero sito produttivo. La fonte della contaminazione sembrerebbe essere stata proprio una coltura proveniente dai laboratori capeggiati da Chris White, autore fra l’altro del testo “Yeast”. 

La foto segnaletica del microrganismo contaminante, giunta fra le mani della corte distrettuale di Denver, raffigurerebbe un ceppo di lievito incluso nella categoria dei wild yeast, appartenente al genere dei Saccharomyces, ovvero il Saccharomyces Cerevisiae var. Diastaticus. Sembra bislacco pensare che un ceppo di genere Sacc e per di più di specie Cerevisiae possa suscitare tutto questo clamore, neanche stessimo discorrendo del peggior Brettanomyces in circolazione. Ed è ancora più singolare che molti homebrewers e birrifici lo utilizzino sovente per fermentazioni “ordinarie”. Giusto per rendere il tema più coinvolgente potrà far piacere o meno sapere che il primo ceppo di lievito saison liofilizzato rilasciato sul mercato e tanto acclamato alla sua uscita dagli addetti ai lavori sia proprio un Diastaticus, per stessa dichiarazione del produttore. In realtà che si trattasse della sua variante Diastaticus lo si è appreso in un secondo momento, grazie alla rettifica emanata attraverso la scheda tecnica. Ma non è l’unico caso di ceppi Diastaticus tra i lieviti forniti dai produttori, basti pensare ad alcuni ceppi French Saison, risultanti alle analisi genetiche costitutivi proprio dei geni incriminati.

Ma vediamo nello specifico di attuare un focus su questo Cerevisiae alquanto atipico e sempre più spesso menzionato fra gli addetti ai lavori. Il Saccharomyces Diastaticus è una variante del Cerevisiae tanto utilizzato in produzione birraria; anche se da un punto di vista genetico presentano tra loro ben poche diversificazioni, tali da definirlo appunto come una variante e non una specie a sé. In realtà le sue peculiarità lo rendono estremamente dissomigliante dal Cerevisiae da un punto di vista funzionale. Il Diastaticus viene difatti considerato un ceppo amilolitico, ovvero capace di degradare ed utilizzare gli zuccheri provenienti dalle maltodestrine e dall’amido. Il mosto di birra è costituito, come ben sappiamo, da un gruppo eterogeneo di zuccheri diversamente fermentescibili; in base al profilo di estrazione degli zuccheri avremo una percentuale di glicidi non fermentescibili variabile tra il 20 ed il 30%, generalmente costituisti da catene di glucosio che vanno dalle 4 fino alle 50 unità, le cosiddette maltodestrine. Senza impelagarci in dettagli troppo tecnici legati al bagaglio genetico del Diastaticus, questo ceppo possiede degli interruttori attivi (i geni STA) capaci di esprimere, sulla membrana cellulare del lievito, le glucoamilasi, ovvero gli enzimi responsabili della conversione delle maltodestrine in zuccheri semplici facilmente assimilabili poi dalla cellula ed utilizzabili a scopo nutritivo. Risulta quindi facilmente intuibile il “danno” che il Diastaticus può apportare ad una birra prodotta ed imbottigliata con un ceppo di lievito non dedito alle elevate attenuazioni. Una ineluttabile magagna che può comportare una iperattenuazione con perdita del corpo della birra ed aumento della gasatura fino al gushing e all’esplosione del contenitore nel peggiore dei casi.

Ma non è il solo aspetto a rendere questo ceppo in alcuni casi deprecabile; tra i vari tasselli del suo puzzle genetico sarebbe attivo un gene che induce la formazione di pseudoife e biofilm, ovvero un vero e proprio interruttore che stimola lo sviluppo di tentacoli che gli permettono di comunicare con l’esterno ed “aggrapparsi con tenacia” alle superfici che si pongono dinanzi. Lapalissiano pensare quindi che la sua resistenza al passaggio di agenti disinfettanti ne risulti quantomeno fortificata. Non stiamo qui a dire che si tratta di un invincibile ceppo generato per sgominare l’intero mondo birrario, tutt’altro; citando l’esempio evidenziato in precedenza, alcuni produttori di lievito lo hanno fieramente schierato nella loro ceppoteca e proposto ad homebrewers e birrai che volessero produrre birre in stile saison senza dover scontrarsi con gli impicci che i lieviti liquidi, soprattutto di stampo saison, possono arrecare. Senza voler dare un giudizio soggettivo sulla effettiva o meno qualità ed aderenza allo stile di questo ceppo, possiamo sicuramente affermare che il profilo generato e l’elevata attenuazione possono produrre birre piacevoli ed esenti da difetti. Di certo il suo utilizzo pone al birraio notevoli problematiche legate ai cicli di detersione e disinfezione. Anche piccoli focolai e colonie sparse qua e la nel proprio impianto produttivo, che sia professionale o casalingo, possono cedere al passaggio del prodotto cellule che possono lentamente propagarsi ed “attivarsi”, comportando i problemi prima evidenziati di iperattenuazione, oltre a “sporcare” il profilo del ceppo di lievito primario. Una premurosa attenzione dovrebbe essere posta quindi al ciclo di detersione mediante l’utilizzo di agenti alcalini che rimuovano efficacemente i residui organici, magari additivati di tensioattivi, agenti chelanti ed emulsionanti e soprattutto in concentrazioni maggiori pur sempre rimanendo nel range di utilizzo suggerito dal produttore. Dopo una accurata detersione e ciclo di lavaggio è altrettanto importante scegliere un prodotto disinfettante ad ampio spettro d’efficacia, magari coadiuvato dall’azione del vapore. 

In conclusione, possiamo senza ombra di dubbio affermare che il Saccharomyces Diastaticus può essere considerato un contaminante a tutti gli effetti, per la sua pericolosità se non utilizzato in maniera “consapevole” e per la sua capacità di generare resistenza agli insulti esterni. Abbiamo anche asserito che lo stesso può generare birre godibili, non di certo memorabili, ma esenti da difetti e con un finale secco. Tuttavia, la domanda che potremo porci è: vale effettivamente la pena utilizzare un ceppo di lievito che potrebbe innescare effetti deleteri se non idoneamente controllato pur senza offrire vantaggi ragguardevoli a livello organolettico? Ai birrai l’ardua sentenza.