Fai felice il tuo lievito: consigli pratici per una migliore fermentazione
Un vecchio mantra diffuso tra i birrai recita: “il birraio prepara il mosto, ma è il lievito che fa la birra”. Mai frase fu più azzeccata. Grazie a questo microscopico organismo, gli zuccheri del mosto vengono convertiti in alcol e anidride carbonica durante un processo più o meno lungo chiamato fermentazione. Ma l’alcol non è l’unico composto a definire la birra, sebbene sia quello prodotto in quantità maggiore durante la fermentazione: tante altre sostanze vengono rilasciate dal lievito durante il suo duro lavoro, ciascuna delle quali contribuisce a formare il profilo organolettico della birra. In alcuni stili, come quelli nativi del Belgio, il contributo del lievito risulta più evidente al naso e al palato; in altri, come le luppolate americane, i prodotti della fermentazione agiscono in maniera sottile, in secondo piano, esaltando in modo più o meno evidente le note fruttate del luppolo e le delicate sfumature del malto. In ogni caso il lievito gioca sempre un ruolo importante, secondario o principale, e come tale va trattato con attenzione e cura. Molti produttori casalinghi partono con il piede sbagliato, specialmente quando acquistano i kit già pronti, pensando che quel povero lievito contenuto nella bustina del kit se la caverà in ogni caso. E in effetti è difficile che la fermentazione non parta o che il lievito non ce la faccia a consumare almeno parte degli zuccheri del mosto. Stiamo parlando di un organismo resistente e caparbio, che, nella maggior parte dei casi, riuscirà a far partire la fermentazione e a portarla più o meno a termine.
Questa estrema caparbietà e resistenza del lievito spinge molti homebrewer a trascurare la gestione della fermentazione, dirottando l’attenzione verso altre fasi della produzione che influiscono molto meno sulla qualità finale della birra. Mentre si potrebbero da subito migliorare le birre con poche ma importanti attenzioni, si perde tempo e si spendono soldi per acquistare pentoloni semiautomatici, installare fermentatori troncoconici, programmare complicati step di ammostamento, senza prestare la dovuta attenzione al lievito e alle sue esigenze. Si possono migliorare – e di molto – anche le birre da kit (ovviamente dipende dal tipo di kit), semplicemente mettendo in campo poche e precise azioni per far lavorare il lievito nelle condizioni migliori.
Le bustine di lievito del kit. Da sempre le bustine di lievito secco che si trovano insieme ai kit pre-assemblati costituiscono il problema maggiore delle birre prodotte in casa dagli homebrewer in erba. Non necessariamente perché siano i peggiori lieviti in circolazione (anche se a volte effettivamente lo sono), ma soprattutto per le condizioni di conservazione non sempre adeguate e per le indicazioni di utilizzo molto spesso vaghe o addirittura fuorvianti.
Conservazione: il lievito andrebbe sempre tenuto al fresco, per garantirne la conservazione ottimale. Se il kit è assemblato in una scatola, è improbabile che l’intera confezione venga conservata in frigorifero. Questo significa che il lievito, anche se si trattasse del miglior lievito secco in circolazione, viene conservato al caldo con effetti negativi sulla salute delle cellule. Inoltre, spesso insieme al kit viene fornito un lievito generico, non ben identificato, in quantità non sufficienti per condurre una fermentazione in condizioni ottimali. Il consiglio in questo caso è molto semplice: buttare la bustina del lievito del kit e comprarne un paio a parte. Ovviamente sempre lievito secco, perché per gestire un lievito liquido servono competenze e un minimo di pratica che in genere si sviluppano solo dopo qualche cotta.
Quale lievito scegliere? Non è molto difficile. I maggiori produttori di lievito secco sono tre: Fermentis, Lallemand e Mangrove Jack’s. Tutti e tre hanno a listino almeno un lievito secco neutro per le birre di stampo americano, utilizzabile anche per birre inglesi come bitter e barley wine. Sugli stili belgi i secchi lavorano peggio dei liquidi, ma qualche prova con un secco belga della Mangrove (M-41) o della Fermentis (T-58) si può fare. Discorso simile per le Weizen tedesche.
È importantissimo non lesinare sulla quantità: in questo caso meglio abbondare che risparmiare. Se si producono i classici venti litri, si può utilizzare una busta fino a una densità di partenza intorno a 1.040, poi due fino a 1.080 e tre a salire. Le bustine costano poco, non ha senso risparmiare due euro per poi trovarsi con 20 litri di birra mediocre (se va bene).
Il controllo della temperatura. Molti pensano che controllo della temperatura di fermentazione significhi necessariamente acquistare un frigorifero in cui piazzare il fermentatore. Non è così, almeno finché rimaniamo nell’ambito delle alte fermentazioni. Per le lager il discorso è diverso, ma sconsiglierei a un homebrewer alle prime armi di cimentarsi nella produzione di basse fermentazioni (impossibile senza camera di fermentazione, a meno che non si fermenti in un cantina con temperatura costante intorno agli 8-9°C). I giorni critici per il controllo della temperatura durante la fermentazione sono i primi due/tre. Spesso è sufficiente tenere sotto controllo la temperatura durante questi giorni per evitare una eccessiva produzione di esteri fruttati (che possono produrre spiacevoli note di solvente) o alcoli superiori (il bruciore alla gola tipico delle birre piuttosto alcoliche e mal fermentate). Tenere sotto controllo la temperatura del fermentatore per qualche giorno non è difficile: si può costruire una piccola camera di fermentazione in polistirolo con qualche bottiglia di ghiaccio all’interno; oppure tenere il fermentatore in una bacinella di acqua fresca da sostituire ogni tanto; o ancora coprire il fermentatore con un telo bagnato e un ventilatore che aiuta il ricircolo dell’aria. Tutte soluzioni poco costose e facilmente praticabili senza spendere cifre astronomiche. Si tratta di stare dietro alla fermentazione per un paio di giorni, un piccolo sforzo che verrà ripagato con una birra piacevole da bere. Per misurare la temperatura di fermentazione consiglio di incollare la sonda del termometro sulla parete esterna del fermentatore, isolandola con uno strato di polistirolo. Un pozzetto inox interno che entra a contatto con il mosto sarebbe meglio, ma la soluzione della sonda attaccata alla parete esterna, se ben isolata, funziona piuttosto bene. Nel caso di lieviti neutri (US-05 o BRY-97) punterei a non superare i 18°C per i primi due/tre giorni di fermentazione (temperatura effettiva del mosto, non dell’ambiente). Nel caso di lieviti belgi, anche 20°C sono accettabili. Dopo i primi tre giorni si può anche salire a 20-25°C senza grandi problemi, ormai il momento critico è passato.
Lieviti secchi o liquidi? Uno dei grandi dilemmi dei produttori casalinghi. Un tema che divide, crea fazioni e anima infinite discussioni. Per alcuni arrivare a utilizzare lieviti liquidi rappresenta l’obiettivo finale, il segno di una crescita come produttore casalingo. Per altri è un no assoluto, un rifiuto quasi viscerale nei confronti di un procedimento che innesta ulteriori variabili nel processo, obbliga a pianificare le cotte e sovente, se il tutto non viene gestito con la dovuta cura e attenzione, porta a risultati incerti. Ci sono elementi di verità in entrambe le argomentazioni; tuttavia, come per la maggior parte delle questioni che orbitano intorno alla produzione di birra in casa, la risposta non è univoca e la scelta ancor meno obbligata. I lieviti secchi hanno il grande vantaggio di preservare le cellule di lievito nella migliore delle condizioni: vengono disidratati quando la fase di moltiplicazione cellulare è al top, nel momento in cui le cellule sono ricche di elementi essenziali che le renderanno forti e vigorose durante la fermentazione. Questa condizione ottimale, se le buste vengono tenute in frigorifero, si mantiene per lunghi periodi. Anche dopo due anni la degradazione è minima: è sufficiente aprire la bustina e spargere il lievito sul mosto (nella giusta quantità, come già detto) per avviare la fermentazione. Addirittura non ci sarebbe nemmeno bisogno di ossigenare, dato che le cellule di lievito hanno in dotazione lipidi in quantità sufficiente per sostenere la riproduzione cellulare. Be’, allora a che servono i lieviti liquidi? Purtroppo il range di ceppi che riescono a sopravvivere in buone condizioni al processo di disidratazione è limitato. Finché ci si muove nell’ambito dei ceppi neutri, di stampo americano, sebbene la variabilità dei lieviti secchi sia comunque limitata, troviamo diversi ceppi di ottima qualità come US-05 e BRY-97 che per molti aspetti non fanno rimpiangere i lieviti liquidi. Ma quando ci spostiamo sul Belgio, o sull’Inghilterra, ecco che la scelta si restringe notevolmente. Le stesse prestazioni dei ceppi secchi disponibili, poi, non sono paragonabili ai corrispettivi secchi, specialmente se si vogliono produrre birre di stampo belga con un forte carattere dato dalla fermentazione. Purtroppo i lieviti liquidi sono molto delicati, non si mantengono come i secchi e hanno bisogno di molte attenzioni. È sufficiente tenerli una settimana a temperatura ambiente per far decadere – e di molto – la loro vitalità (ovvero la capacità fermentativa). Il conteggio delle cellule attive andrebbe ogni volta verificato al microscopio per comprendere la situazione in cui versa la nostra povera bustina, cosa raramente fattibile in casa. È inoltre importante gestire questi lieviti con uno starter, ovvero una fermentazione su scala ridotta (in media 1 o 2 litri di starter per fermentare 20 litri di mosto) che va condotta al massimo una settimana prima della cotta perché una volta terminata il lievito entrerà di nuovo nel processo di deterioramento. Lo starter non è nemmeno il modo migliore per propagare il lievito, ma è l’unico disponibile per i birrai casalinghi e rappresenta dunque un buon compromesso. I birrifici (ma ormai anche molti homebrewer) fanno propagare il lievito da alcune aziende specializzate che lo recapitano a casa pronto all’utilizzo tramite corriere refrigerato. Questa è ovviamente la soluzione migliore, ma aggiunge ulteriori costi e ha senso se i volumi prodotti sono significativi. La risposta all’incipit iniziale non è quindi univoca: non esiste una strada migliore in assoluto e non è affatto detto che un homebrewer con esperienza debba necessariamente smettere di usare lieviti secchi. Esistono alcuni ceppi più che validi che non fanno sentire la mancanza dei liquidi. Ed è bene ricordare che è sempre meglio utilizzare – bene – un lievito secco piuttosto che scegliere un ceppo liquido e per pigrizia o mancanza di competenza e attenzione gestirlo male, senza starter, senza curarsi di portarlo nelle migliori condizioni per fermentare il mosto. Riuscirà meglio un Saison fermentata con due bustine di Belle Saison della Lallemand piuttosto che una fermentata con un ceppo Belgian Saison liquido conservato male, inoculato senza starter e in quantità non sufficiente.
Imparare a pulire l’attrezzatura. Quando si inizia a fare birra in casa si sottovalutano le attività di pulizia e sanitizzazione. In particolare, la prima è molto importante, perché una pulizia attenta ed efficace dell’attrezzatura scongiura la proliferazione di lieviti e batteri all’interno di fermentatori, rubinetti e tubi nei periodi di inattività che intervallano le cotte casalinghe. Non è in alcun modo sufficiente passare acqua calda nel fermentatore o mettere rubinetti e tubi ammollo in acqua calda e sapone per piatti, dopo la fermentazione. Purtroppo le superfici non ispezionabili (come l’interno dei rubinetti) o non raggiungibili con uno scovolino o una pezzetta (l’interno dei tubi per travaso) vanno puliti con appositi detergenti in grado di rimuovere le proteine, i grassi e gli zuccheri che il mosto e la birra lasciano al loro interno. Per la pulizia della plastica si può usare semplice candeggina non profumata acquistata al supermercato, lasciata agire in acqua fredda per circa 30-60 minuti, nella concentrazione di 10 ml/L. Per l’acciaio inox meglio ripiegare su prodotti professionali come detergenti enzimatici (Enzybras), percarbonato di sodio o soda caustica (attenzione a quest’ultima perché molto pericolosa, meglio i primi due). Un successivo passaggio/ammollo per una mezz’ora in acido citrico (si acquista su Amazon, in polvere) nella dose di 4g/L (in acqua tiepida) aiuta a rimuovere i depositi calcarei che inevitabilmente si formano quando si impiegano detergenti basici come quelli elencati prima. Se l’attrezzatura è ben pulita, la successiva sanitizzazione diventa molto più facile ed efficace. Se si lascia terreno di coltura per batteri e lieviti (ovvero residui di mosto nei fermentatori o in qualsiasi attrezzatura utilizzata per il passaggio di mosto freddo o birra) sarà molto difficile rimuoverli nella fase di sanitizzazione. Il risultato di un’infezione non è necessariamente una birra da buttare, spesso l’effetto è sottile e non immediatamente rilevabile: gli effetti negativi possono presentarsi nel tempo, spesso con sovracarbonazione e pericolose bottiglie bomba; ma anche semplicemente sporcare il profilo organolettico senza che l’infezione risulti evidente. Imparare a pulire l’attrezzatura a modo è il primo passo verso una fermentazione ottimale.
Può sembrare banale, ma porre la giusta attenzione a questi pochi aspetti può fare la differenza tra una birra mediocre e una birra buona. Senza dubbio si tratta di elementi che influiscono molto di più sulla riuscita del prodotto rispetto a complicati programmi di ammostamento multistep, protein rest, efficienze stratosferiche o ricette non perfette. Garantito.