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Dip Hopping: è davvero utile?

Se c’è una cosa che ho imparato a riconoscere in questi anni da homebrewer – ma anche come semplice appassionato di birra artigianale – è la continua ricerca di novità e stimoli che pervade questo mondo. È così per molti bevitori, sempre alla caccia di nuovi stili da assaggiare e commentare sul blog o sulla piattaforma social di turno, ma lo è anche per i produttori casalinghi, continuamente alla ricerca di nuove tecniche produttive o strumentazioni particolari che possano alzare il livello qualitativo delle birre prodotte in casa. O almeno che diano l’illusione che sia così.  Il problema, o meglio, un punto che merita attenzione, è che molto spesso, almeno a livello di produzione di birra in casa, si abbracciano nuove metodologie produttive senza aver ben chiaro quali benefici introducano. Si tendono a replicare processi impiegati dai birrifici, senza considerare che in casa un tale approccio può perdere di senso o, addirittura, avere effetti negativi sul prodotto finito. Al centro di queste tendenze c’è spesso l’assenza di consapevolezza dell’esistenza del bias-cognitivo da cui tutti siamo altamente influenzati senza rendercene conto. Siamo portati a cercare le conferme che vogliamo nel bicchiere, con l’effetto di sancire come essenziali processi o approcci che nella realtà dei fatti non modificano particolarmente la birra che arriva nel bicchiere. Nella migliore delle ipotesi non hanno alcun effetto, ma in alcuni casi gli effetti complessivi, considerando tutte le catene di reazione, possono anche essere negativi. Dopo l’aggiunta di luppolo in quasi tutti le fasi della fermentazione, lo spurgo continuo, i travasi, il doppio e triplo dry hopping, è arrivato il momento della nuova frontiera nell’aggiunta sconsiderata di luppolo alla birra: il dip hopping. Anziché entrare a gamba tesa contro una nuova tendenza che entusiasma molti homebrewer, proviamo a ricostruire il contesto in cui questa nuova tecnica di luppolatura si colloca (che poi, come vedremo, così nuova non è). Perché un fondamento scientifico per tutto ciò sembrerebbe esistere, ma potrebbe essere diverso da quello che molti homebrewer – ma anche alcuni birrai – sono portati a pensare.

Tutto nasce dalla biotrasformazione

Biotrasformazione può voler dire tutto e niente allo stesso tempo. Letteralmente significa “trasformazione biologica”, ovvero una trasformazione stimolata da organismi viventi e non da semplici reazioni chimiche che si susseguono l’una dopo l’altra. Nel caso della produzione di birra, vengono indicate genericamente con il termine “biotrasformazione” quelle trasformazioni che avvengono durante la fermentazione, ad opera del lievito. Tecnicamente anche la fermentazione stessa può essere chiamata biotrasformazione – molti sono gli elementi chimici che si trasformano grazie all’attività metabolica del lievito durante la fermentazione – tuttavia nel mondo birrario con questo termine sono identificate le trasformazioni che avvengono durante la fermentazione a partire in particolar modo dai composti derivati da uno specifico ingrediente: il luppolo (ma non solo). Queste possono essere ricondotte, sempre con un certo livello di approssimazione, a due principali categorie: la “semplice” trasformazione di un composto aromatico in un altro composto aromatico o la liberazione di un aroma che altrimenti sarebbe rimasto nascosto. Nel primo caso il profilo aromatico del luppolo cambia, nel secondo vengono amplificate alcune componenti che altrimenti, non essendo volatili, non potrebbero essere avvertite al momento dell’assaggio. 

Fa parte della prima categoria di biotrasformazioni la conversione, ad esempio, del geraniolo (un terpenoide contenuto negli oli essenziali luppolo) in citronellolo. In questo passaggio, favorito dalla fermentazione, gli aromi floreali del primo si trasformano in quelli citrici del secondo. Per farla semplice: se un luppolo ricco di geraniolo viene introdotto nel mosto in qualsiasi momento precedente all’attività del lievito, durante la fermentazione vedremo amplificarsi la componente citrica a discapito di quella floreale. Per mantenere attiva quella floreale, sarebbe quindi meglio aggiungere lo stesso luppolo a fermentazione terminata. Un altro esempio di questo tipo è la biotrasformazione del 3MH, un tiolo presente nel luppolo, in 3MHA. L’aroma di pompelmo tipico del primo si trasforma in aroma di passion fruit, tipico invece del secondo. Questa tipologia di biotrasformazione indotta dal lievito è un passaggio chiave per comprendere il dip hopping.  

Un esempio della seconda categoria di biotrasformazione sono invece tutti quei composti aromatici che si trovano nel luppolo (non solo nel luppolo, ma questa è un’altra storia) “legati” ad altre sostanze non volatili (si dicono bounded in inglese). Nella forma legata non sono aromatici: la fermentazione può scindere questo legame (o in qualche modo modificarlo) liberando la parte aromatica che a questo punto entra a far parte del profilo organolettico della birra. Esempi di questa categoria sono i glicosidi, dove un composto aromatico (spesso un terpenoide ossigenato come ad esempio il linalolo, con aroma floreale/citrico) è legato a una molecola di saccarosio: alcuni enzimi prodotti dal lievito sono in grado di scindere questo legame liberando la parte aromatica del glicoside. Altro esempio di questa categoria di biotrasformazioni è quella che agisce sui composti dello zolfo, i cosiddetti tioli o mercaptani, che si trovano in grandi quantità nel luppolo in forma di precursori. Tra i composti dello zolfo, i più interessanti dal punto di vista aromatico sono i tioli polifunzionali che hanno nomi molto complicati abbreviati in 4MMP (pompelmo) o il già citato 3MH (passion fruit) ma anche molti altri. Il lievito è meno efficace nel liberare questo tipo di composti rispetto ai glicosidi, ma alcuni ceppi riescono a liberare una discreta quantità di composti dello zolfo nel corso della fermentazione. Può quindi aver senso aggiungere i luppoli prima della fermentazione ma dopo la bollitura del mosto (che tende a volatilizzare gli aromi), ovvero durante il whirpool/ o l’hop stand. E anche questo è un elemento importante da tenere a mente per comprendere meglio il dip hopping.

Riassumendo i concetti chiave della biotrasformazione, possiamo dire che le aggiunte di luppolo precedenti alla fermentazione possono contribuire in modo significativo al profilo aromatico della birra. Questo non significa che tutto il luppolo vada aggiunto prima della fermentazione, ma che una gestione oculata e intelligente delle aggiunte prima, durante e dopo la fermentazione può variare notevolmente l’aroma della birra, così come la scelta della singola varietà di luppolo. 

C’è anche un altro elemento di cui non abbiamo parlato: gli idrocarburi, ovvero i terpeni, una parte consistente degli oli essenziali del luppolo, poco solubili e molto volatili, associati ad aromi positivi come resina/pino ma anche vegetali (non il vegetale della verdura cotta, però, piuttosto il vegetale inteso come la parte “verde” della pianta, l’aroma della corteccia fresca). Tra gli idrocarburi il più comune è il mircene che può dare un contributo aromatico interessante ma anche eccessivamente vegetale se presente in dosi eccessive. Per la sua natura volatile e poco solubile è difficile trovarlo in concentrazioni significative nella birra, specialmente quando gli oli essenziali passano attraverso la fermentazione, poiché le cellule di lievito tendono a “catturare” gli idrocarburi come il mircene trascinandoli sul fondo del tino a fine fermentazione. E questo è proprio il terzo elemento da considerare quando si parla di dip hopping. Andiamo ora a mettere insieme i pezzi del puzzle.

 

birra luppolo bottiglia

 

Il dip hopping

Anzitutto va detto che, sebbene abbia ricevuto l’attenzione dei birrifici artigianali e degli homebrewer solamente negli ultimi anni, il dip hopping non è un procedimento nuovo. In rete viene spesso citata la giapponese Kirin come primo birrificio a portare avanti studi pratici e scientifici su questo tema dal lontano 2012, ma si trovano anche diversi articoli scientifici pubblicati dai ricercatori della rivale Asahi, sempre una multinazionale della birra nata in Giappone. Partiamo però dall’inizio: come si fa il dip hopping? Il procedimento non è ancora del tutto chiaro e univoco, ma le linee guida generali sono piuttosto semplici: è sufficiente spostare le aggiunte di luppolo dal whirlpool/hop stand direttamente al fermentatore, prima ancora di inoculare il lievito. Si raffredda il mosto nel tino in bollitura fino a circa 75°C (per ridurre al minimo l’isomerizzazione degli alfa acidi e quindi l’estrazione dell’amaro), si sposta un 10-15% di questo mosto ancora caldo nel fermentatore (ovviamente, per chi produce in casa, il fermentatore deve essere inox) dove avremo già aggiunto il luppolo producendo una sorta di “té al luppolo”. Si lascia riposare questa miscela mentre si raffredda il resto del mosto bollente nel tino di bollitura, o comunque da un minimo di mezz’ora a un’oretta, poi si sposta il resto del mosto raffreddato nel fermentatore, si ossigena e si inocula il lievito. La fermentazione andrà avanti come di consueto, si dovrà solo avere l’accortezza di spurgare in più riprese la montagna di luppolo che si depositerà sul fondo del fermentatore durante e dopo la fermentazione. 

Perché fare tutto ciò anziché mantenere le aggiunte a fine boil, in whirpool o in hop stand? Secondo alcune ricerche pubblicate dalla Asahi, la motivazione risiede proprio nella biotrasformazione. In particolare, nell’evitare la formazione eccessiva di 2M3MB, un composto dello zolfo dallo sgradevole aroma di cipolla/sudore. Il principio per cui il dip hopping può ridurre, in alcuni casi e con alcuni luppoli, la formazione di questi aromi sgradevoli non è del tutto compresa, ma diversi studi puntano nella medesima direzione: sembrerebbe che un suo precursore, l’EMB, venga trasformato in 2M3MB durante la fermentazione proprio per una biotrasformazione indotta dal lievito. Il dip hopping non risolve il problema della biotrasformazione di questo composto, ma l’aggiunta di luppolo nel fermentatore anziché durante il whirpool (pratica comune a molti birrifici per via della maggiore estrazione favorita dal mescolamento continuo) eviterebbe l’ossidazione a caldo degli iso-alfa-acidi del luppolo che darebbe origine proprio all’EMB da cui parte la catena di trasformazione che porta infine agli aromi di cipolla. 

Qualcuno potrebbe contestare che, anche inserendo il luppolo direttamente nel fermentatore prima della fermentazione, si arriverebbe comunque a una ossidazione degli iso-alfa-acidi a causa dell’ossigenazione del mosto necessaria per il lievito. Non ho trovato una risposta chiara su questo tema, ma immagino che in una tale configurazione l’ossigeno verrebbe consumato dal lievito in poche ore, rendendo improbabile una ossidazione “istantanea” degli iso-alfa-acidi considerando anche la minore temperatura del mosto nel fermentatore rispetto a quella nel tino di whirlpool o in hop stand. 

Tutto ciò è stato oggetto di ricerche scientifiche e di articoli pubblicati che si possono reperire anche online, non ancora del tutto confermati, o confermati solo in parte, ma senza dubbio molto validi. Tutte le altre voci che circolano sul dip hopping, i presunti benefici, gli stupori sperimentati da vari homebrewer nell’utilizzo di questa nuova tecnica di luppolatura, sembrano più che altro ipotesi, convinzioni, bias cognitivi

Alcuni sostengono che il dip hopping favorisca le biotrasformazioni positive, ma questo è tutto da verificare: sicuramente con il dip hopping gli oli essenziali del luppolo passano per la fermentazione e vengono biotrasformati, ma questo accadrebbe ugualmente se la stessa quantità di luppolo venisse aggiunta in whirpool/hop stand (tra l’altro proprio l’hop stand già riduce al minimo l’ossidazione perché il mosto è fermo). Altri sostengono che il dip hopping permetta di liberarsi meglio dei mirceni, gli idrocarburi poco solubili dagli aromi di pino/resina ma anche dalle note vegetali. Considerando la loro ridotta solubilità nel mosto e nella birra in generale, sarebbe comunque difficile trovare quantità significative di mirceni nel mosto o nella birra finita per qualsiasi aggiunta precedente alla fermentazione. Qualcuno teorizza anche una maggiore utilizzazione degli oli essenziali grazie all’aggiunta in dip hopping, oli che poi verrebbero biotrasformati durante la fermentazione. Questo effetto potrebbe anche essere vero, specialmente se confrontiamo il dip hopping con l’aggiunta in l’hop stand, dove l’assenza di movimento, pur riducendo l’ossidazione, riduce nel contempo la solubilizzazione degli oli essenziali. Inoltre, mi sembra ragionevole ipotizzare che, aggiungendo il luppolo direttamente nel fermentatore anziché nel whirpool/hop stand, si evitano le perdite di oli essenziali nel trub di fine bollitura. Non mi risulta tuttavia che questa ipotesi sia stata ad oggi valutata quantitativamente con un confronto testa a testa tra i due approcci. Andrebbe anche valutata attentamente la quota parte di composti positivi che si solubilizzano dal luppolo con il dip hopping rispetto a quelli negativi, come ad esempio acidi grassi o polifenoli. Altro tema sarebbe anche analizzare nel dettaglio se e come tutto quel luppolo aggiunto nel fermentatore possa influire sulle performance del lievito. Insomma, le variabili sono davvero molte, tantissime delle quali ancora da valutare dal punto di vista scientifico. 

Quello che è chiaro è che l’origine di questa pratica deriva da necessità contingenti: ridurre gli aromi di cipolla che determinate varietà di luppolo tendono a trasferire nella birra. Ne sono quindi derivati studi analitici che hanno confermato la loro riduzione spostando l’aggiunta del luppolo dal whirlpool al fermentatore. Da qui a farne una pratica valida ed entusiasmante a prescindere, da riprodurre anche in casa, ce ne passa. Anche perché nella pratica non è così semplice: bisogna raffreddare il mosto, spostarne una parte, attendere prima di raffreddare il resto, praticare diversi spurghi durante e dopo la fermentazione con conseguente perdita anche di mosto e birra. Inoltre, occorre porre particolare attenzione ai trasferimenti a caldo del mosto perché si rischia comunque di ossidare, specialmente se il fermentatore non è saturo di CO2 ma è pieno di aria (lo spazio vuoto al suo interno, con solo il 15% di mosto dentro, è piuttosto ampio).  Insomma, una strada sicuramente interessante da esplorare anche in casa ma con le dovute cautele, senza rimanere accecati dall’entusiasmo della novità a tutti i costi.