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De Garre experience

Il centro di Bruges è il Belfort, torre civica medievale e simbolo della città, dall’alto della quale si getta suicida Brendan Gleeson nel film tetro e divertente “In Bruges”. Tra negozi di cioccolata e merletti del vitale Grote Markt è un attimo perdersi, sognando i tempi d’oro di questa città commerciale. I vicoletti sembrano tutti uguali, ed è anche per questo che è sempre così complicato beccare al primo tentativo quella sorta di passaggio segreto in Breidelstraat, un archetto minuscolo che non sembra nascondere una via ed un ingresso in una realtà parallela a quella turistica di Bruges. Pochi metri e frontalmente si staglia, al civico De Garre 1, l’omonima staminee.

Un mondo nel mondo, dove la fredda pietra del centro fiammingo diventa contenitore di vita, voci e colori. L’accoglienza è minimale ma si sa, basta chiedere spazio e subito lo si trova condividendo con altri un tavolo. Birre ce ne sono, spesso solo quelle prodotte dal gigante belga Van Steenberge come la De Witte o la Gulden Draak. Ma tra queste la scelta deve ricadere su una sola, l’unica che ha senso di essere bevuta in quel posto: la Tripel van De Garre. Prodotta in esclusiva per loro, si può trovare solo qui e solo alla spina, oppure in bottiglia ma nel formato da un litro e mezzo. Il perchè sia una birra splendida lo sa solo chi c’è stato, e non è un’esagerazione estremista la mia. Imperiosa la schiuma, pannosa nella consistenza e nel colore, con quel tipico bicchiere massiccio, lontano ed involontario progenitore del moderno “IPA glass”. Un aroma floreale molto intenso e dai toni molto delicati, freschi, di gelsomino e crema pasticcera, di zucchero a velo, torta di mele, crostata alla frutta. Splendidamente solida, con malto e soprattutto lievito in evidenza a dare anche fragranti sfumature fruttate, con grande sostegno al tenore alcolico molto elevato di 11,5%. Potremmo parlarne per pagine di questa favola liquida, avvolgente come poche tripel al mondo, carica anche di grande fascino legato al luogo, così apparentemente cupo e semplice da non far intuire la grande bellezza nascosta dietro ad una birra-gemma. Passa in secondo piano tutto, perfino il nome del birrificio dove viene prodotta e quella semplice ciotolina di formaggi, classica di ogni birreria delle Fiandre. Qui si respira non solo un’atmosfera, ma un messaggio. La proposta è semplice ma quanto mai contro corrente ai nostri occhi, quelli di appassionati di novità, di innovazione, di collaborazioni e di one shot in edizione limitata. Qui il limite è proprio il desiderare altre birre, non concedendosi al suggerimento di godersi quella senza l’ansia di non sapere quale birra ordinare dopo. Se si regge – e si deve! – semplicemente se ne ordina una seconda: ho visto fare tutto l’opposto, vedendo gente gettarsi anche su altre belghe in bottiglia perchè beh, “siamo in Belgio, dove altro dovrei berle?” .

Concedersi a questa birra significa accettare la ripetitività, placare la sete corporale invece che quella maniacale e compulsiva. Di rado e difficilmente ci permea questo approccio ed è una pecca che dovremmo scrollarci di dosso, o almeno dimostrare di provarci, e per diversi motivi. Innanzitutto perchè spesso si scarta a priori la gioia di ripetere una birra, che si tratti di quella che si beve in una unica serata o durante le uscite abituali. Il divertimento nel cambiare ed assaggiare birre tutte diverse ravviva, esalta, tiene attivi, ma è triste quando questo esclude il piacere diversamente godereccio di scoprire a fondo un’unica birra, di permeare nelle sue trame, di spogliarla e permetterle di entrare nei nostri sensi, affrontandone le diverse sfumature, dalla compostezza del primo sorso fino alla rilassata disinvoltura delle ultime gocce. Una degustazione cosciente è spesso semplicemente un mezzo per conoscere una birra, ma spesso è confusa con il fine ed il vero obiettivo, che è quello di godersela più che studiarla con tecnica. Per quello bastano i primi bicchieri – al diavolo l’invito alla moderazione – a volte anche i primi sorsi, dopo i quali è più bello mollare i freni e gustarsela, in una beata e riflessiva solitudine così come nella caciara della compagnia e del contesto. Altro aspetto, quest’ultimo, spesso trascurato. Quelle voci, quelle mura e perfino le mani e la gestualità di chi quella birra la spilla fuori dai fusti fino a versarla nel bicchiere con tutti i crismi tecnici ed estetici, fanno la differenza. 

La stessa Tripel van De Garre è stata avvistata anche in Italia negli ultimi tempi, l’ho incrociata perfino nella tap list di un pub di San Francisco – insieme alla Altbier di Uerige – con quello stesso bicchiere anche se con un aspetto che non è esattamente quello suo abituale. Fa pensare tutto ciò, fa domandare se abbia senso tutto questo tentativo di globalizzare l’anima di certe birre, il loro significato reale, intrinseco e simbolico. Mi urta profondamente quando birre di questa carica emotiva vengono strappate dai loro luoghi d’origine e diventano fenomeni da baraccone, come elefanti costretti a stare in piedi sullo sgabello al centro del tendone da circo con quel volto triste e stanco, come le storie strappa lacrime portate di forza nei salotti televisivi. Spesso chi si approccia a questa ed altre birre simili lo fa – inconsciamente, anche se non per questo incolpevolmente – con lo spirito di chi colleziona oggetti e non esperienze, figurine da reperire e da mettere nel proprio album, quando invece si tratta di quadri da contemplare nel museo che li custodisce e che diventa esso stesso esperienza: sarebbe mai possibile slegare il Giudizio Universale dalla Cappella Sistina o La Gioconda dal Louvre? È svilente quando distributori o publican spingono a questo approccio materialista, che nasce certamente con il buon proposito di conoscere e far conoscere più birre possibili, ma che poi devia verso una austera e misera dimostrazione di capacità commerciali. Non sarebbe più esaltante fare del buon turismo birrario, con tutto quel carico di attese, di ricerca, di percorsi emotivi viscerali, che portino a perdersi nei luoghi della birra per poi ritrovarli in forma liquida come storie inscindibili dai posti? Una filosofia forse un po’ zen ed emotiva, che però credo teneramente sia in pericolo oggi, quando ormai si riesce a reperire tutto da qualunque parte del mondo. E non mi riferisco solo ai prodotti europei, alle birre della Franconia, ai cask inglesi, ad altbier e kölsch, alla Tripel van De Garre. Chi è mai riuscito a trovare la Pliny the Elder al di fuori della California (se va bene), o meglio, la Pliny the Younger fuori della tap room di Russian River a Santa Rosa? O che senso ha non bere stili fragili – mettiamoci perfino le NEIPA del Vermont, perché non è una morale ciecamente tradizionale la mia – fuori dalla propria dimensione local? 

Quando un produttore vuole che quella birra la si beva solo sul posto, favorendone la freschezza al servizio del consumatore locale, al cospetto del contesto che negli anni le è stato cucito intorno e degli uomini che hanno saputo conoscerla ed interpretarla nel tempo passandola dal fusto al bicchiere per anni, evidentemente un certo valore aggiunto gli va riconosciuto e l’espressione di “birra della casa” prende decisamente senso. Invidiamo tanto le grandi tradizioni birrarie, i loro elevati consumi e l’attaccamento dei bevitori, ma ci lamentiamo di non possedere queste doti: la riscoperta dell’offerta locale credo sia l’aspetto su cui dobbiamo puntare, anche e soprattutto per coerenza con questo desiderio di maturità.