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Come si è evoluta in Italia la professione del birraio

Il movimento birrario artigianale italiano compirà quest’anno ventinove anni: ha dunque l’età di un giovane adulto che si trova a dover compiere scelte cruciali per gli anni della maturità che si avvicinano a grandi passi, e da lui non ci si aspettano più comportamenti ed errori che si addicono all’infanzia o all’adolescenza. I microbirrifici devono essere aziende efficienti come tutte le altre”, “senza un’adeguata gestione manageriale e corrette strategie di posizionamento del prodotto, comunicazione e vendita non vai da nessuna parte nemmeno se la tua birra è buona o molto buona”: si sentono sempre più spesso ripetere queste frasi o loro assonanti nelle discussioni tra addetti ai lavori ed è tutto vero, ma senza il prodotto e il suo artefice, ovvero il birraio, non ha senso parlare di sovrastrutture promozionali e commerciali né di buone prassi di gestione economica.

La centralità della figura del birraio, la sua visione della bevanda e, in generale, della società e della vita nonché, ovviamente, le sue preferenze e idiosincrasie tanto gustative quanto umane, sono, del resto, la precipua cifra distintiva tra artigianalità e produzione industriale: una delle più celebri e citate massime di Lorenzo Kuaska Dabove è infatti “la birra artigianale è il prolungamento della personalità del birraio”, frase indubbiamente azzeccata e ficcante nella sua sottolineatura di un aspetto fondante e imprescindibile del concetto di lavoro artigianale a tutto tondo, non solo in ambito brassicolo. Anche i birrai artigiani italiani sono divenuti “adulti” congiuntamente al movimento? In massima parte sì, ma è il tempo di dedicare una necessaria riflessione a quanto il loro lavoro e la loro figura professionale siano cambiate in più di cinque lustri e se i mutamenti avvenuti e ancora in corso portino a una maggiore vicinanza a quando avviene nelle nazioni di grande tradizione birraria.

I primi birrai artigiani in Italia, come negli USA, hanno in massima parte, per quanto non manchino clamorosi controesempi quali Teo Musso, mosso i loro primi passi come homebrewer: la birrificazione domestica è essenzialmente, o forse lo era, passione viscerale, febbrile volontà di gettare il cuore oltre qualunque ostacolo e sperimentazione anche ardita con connessa disponibilità a rischiare molto proprio perché si tratta di un’attività per sua natura avulsa da qualsivoglia interesse commerciale. Ho scritto “forse lo era” perché un paio di autorevolissimi pareri che ho avuto la fortuna di recepire negli ultimi anni hanno aperto uno squarcio sulla tela idilliaca e, se vogliamo, ingenua del domozimurgo come genuino hobbista. Nel gennaio 2022 Davide Bertinotti, che per i pochi che non lo conoscessero è uno dei puri padri dell’homebrewing italiano assieme a Max Faraggi e Paolo Erne (“puri” perché nessuno dei tre ha mai aperto un birrificio) in un’intervista a Radio Freccia ha infatti sottolineato, non senza una punta di amarezza, come nei concorsi destinati ai produttori domestici si sia assistito a un netto mutamento di prospettiva: se fino a un lustro fa a dominare era la più genuina volontà di stare assieme agli altri membri della comunità e tenersi compagnia per una domenica a colpi di assaggi delle reciproche creazioni, oggi l’attenzione o addirittura l’ossessione per i punteggi e le classifiche è divenuta il mood dominante. D’altro canto, già nel 2016 Marco Valeriani, a sua volta ex homebrewer prima di diventare uno dei più bravi e famosi birrai italiani, mi aveva confidato la sua volontà di non tenere più docenze nei corsi di birrificazione domestica perché “all’ultimo in cui ho insegnato alla mia domanda su chi volesse aprire un birrificio hanno alzato tutti la mano: non è questo lo spirito dell’homebrewing e non mi interessa più insegnare in questo contesto”.

Questi mutamenti nel mondo dell’homebrewing, ancor oggi incubatrice di una considerevole percentuale di birrai, aiuta probabilmente a capire meglio la natura del cambiamento occorso al mondo dei “pro” e non è forse del tutto scontato far notare come, parlando di birrai non più domestici ma professionisti, una più incisiva competitività e una più maniacale attenzione al risultato finale mutino decisamente segno: se in un homebrewer queste caratteristiche possono infatti indicare una negativa perdita dello spirito decoubertiano che si addice a un hobby, in un imprenditore esse divengono segno di una positiva ricerca di costanza e consistenza qualitativa che sono alla base della sopravvivenza, per non dire del successo, di un’azienda chiamata a disputare la sua partita in un terreno di gioco sempre più affollato.

In altre parole, un birraio che accogliesse il cliente un visitatore esclamando “qui le birre le faccio con i malti e luppoli che trovo e come vengono vengono” sarebbe forse apparso simpaticamente folcloristico quindici anni fa, ma oggi susciterebbe all’istante sgomento e fastidio. La passione, il cuore e il sudore spesi di fronte a pentoloni e scambiatori di calore decisamente non bastano più, se mai sono bastati. Ricordo a metà anni Duemila, ai tempi dei miei primi corsi di degustazione, Agostino Arioli asserire con determinazione che il pericolo più grande per la birra artigianale fosse rappresentato proprio da coloro che si avventuravano nella produzione intendendo “artigianale” come sinonimo di improvvisato, rabberciato e casuale, come se mezzi e competenze ridotte all’osso fossero giustificazioni in grado di rendere accettabile qualunque porcheria finisse nel bicchiere. D’altro canto un altro pioniere, purtroppo non più tra noi, come Lorenzo Bottoni disse più volte, con il suo ben noto gusto per la provocazione e la polemica intesa in senso eracliteo come motore del mondo e sprone a far sempre meglio, che se avesse sentito ancora qualche collega usare il termine “passione” per descrivere il proprio lavoro lo avrebbe preso a schiaffi.

Una maggiore attenzione alla consistenza qualitativa porta con sé, quale inevitabile conseguenza, la necessità di dotarsi di strumenti e rudimenti di analisi chimica o di relazionarsi con laboratori che svolgano questo lavoro: sia che si disponga di una struttura interna o che, al contrario, si preferisca delegare queste mansioni a una realtà esterna, infatti, il responsabile della produzione in birrificio dovrà essere in grado di padroneggiare quantomeno le basi scientifiche e terminologiche riguardo ai lieviti, ai loro nutrienti e coadiuvanti nonché ai possibili contaminanti che potrebbero pregiudicare il loro lavoro. Formarsi adeguatamente sulla gestione del lievito, tramite studio individuale o frequentando corsi organizzati da istituzioni birrarie italiane o straniere è del resto un imperativo sempre più categorico per qualunque birraio minimamente ambizioso.

Centinaia di birrifici italiani, evolvendo dalla loro fondazione ad oggi, hanno dovuto affrontare il cruciale passaggio del cambio di sala cottura e dell’impianto di confezionamento: diverse volumetrie e processi di lavorazione portano con sé un inevitabile periodo di assestamento e la necessità di rivedere il bilanciamento delle ricette. Senza contare che in caso in cui il cambio di impianto implichi un trasferimento in una diversa località, appare obbligatorio anche uno studio sul nuovo profilo dell’acqua e sulle eventuali correzioni da apportarvi, e ciò ci conduce ancora una volta a un’esigenza formativa importante. Inoltre, maggiore automazione significa certo meno lavoro manuale, minore fatica fisica e maggiore ottimizzazione dei tempi di cotta, con la conseguente opportunità di poter dedicare più tempo all’elaborazione e al perfezionamento delle ricette o ad altri aspetti dello sviluppo aziendale, ma, di nuovo, implica la necessità di acquisire competenze tecniche e tecnologiche specifiche per poter utilizzare al meglio le potenzialità dei nuovi “giocattoli” e anche per far fronte ad eventuali inconvenienti e imprevisti sempre in agguato. Parafrasando un antico detto popolare riferito alla crescita dei figli, infatti, si può senza tema di smentita dire: “piccoli impianti, piccoli problemi, grandi impianti, grandi problemi”.

Il successo che ha, fortunatamente, arriso a una considerevole parte dei microbirrifici nazionali e l’evoluzione del mercato e dei mezzi di comunicazione ha inoltre chiamato gli imprenditori artigiani a sfide che non si giocano nell’ambito strettamente tecnico della sala cotte e della cantina di maturazione.

Un’azienda che cresce ha l’inevitabile necessità di inserire nuovo personale sia nella produzione che nella rete commerciale o nella comunicazione e marketing e per imprenditori dall’estrazione tutto sommato “romantica” o, se si preferisce, “ruspante” come i birrai artigiani della prima ora questo passaggio può risultare ancora più difficile che per imprese nate con diversi presupposti: il primo, fondamentale, nodo è il concetto di delega, vero tallone d’Achille e zavorra di moltissime aziende italiane, anche di medie dimensioni e in tutti i settori produttivi, che molto spesso non riescono a superare l’arcaico schema organizzativo della logica padronale. L’ossessione del controllo totale di ogni aspetto della vita aziendale da parte del fondatore e proprietario crea infatti inevitabili rallentamenti e colli di bottiglia nel flusso produttivo e delle comunicazioni: per evitare di trovarsi in situazioni scomode o addirittura insostenibili quando è troppo tardi, il birraio, come qualunque imprenditore, dovrebbe in primo luogo rispondere con estrema sincerità alla domanda “quanto sono disposto a delegare compiti e responsabilità?” Se la risposta è “nemmeno per idea” vanno ovviamente messi nel cassetto i sogni di espansione ed è invece opportuno concentrarsi sulla qualità dei prodotti da realizzare, giocoforza, in ridotta quantità: nel mondo birrario italiano non mancano esempi di questa filosofia aziendale e di vita anche tra produttori di assoluta eccellenza. Se invece il nostro birraio si trova disposto a delegare parte dei propri compiti, la domanda successiva riguarda quali sono gli ambiti lavorativi in cui si è più disposti a lasciare spazio alla professionalità altrui: voglio restare il sovrano della sala cotte per dare la mia impronta a tutti i lotti e preferisco che siano altri a veicolare all’esterno i prodotti e l’immagine del birrificio oppure, al contrario, mi si addice di più il ruolo del frontman e del testimonial e sono pronto a lasciare le chiavi dell’impianto a uno o più professionisti adeguatamente formati a costo che, come i cuochi emergenti nella brigata di un grande chef, diano inevitabilmente e sempre più il loro tocco, magari piuttosto diverso dal mio, alle ricette?

Anche in questo caso non mancano nel panorama italiano esempi concreti di entrambe le opzioni mentre nelle sale cotte dei microbirrifici di maggior successo e diffusione ci si è inevitabilmente adeguati al modello organizzativo diffuso nei Paesi di tradizione birraria in cui si ha da una parte l’head brewer che formula le ricette e si occupa della selezione delle materie prime, della supervisione qualitativa e del processo produttivo e dall’altra una squadra di birrai che segue la quotidianità delle cotte e della gestione della cantina. In Germania i due ruoli corrispondono solitamente a un diverso livello di formazione: il braumeister è, infatti, quasi sempre un ingegnere birrario laureato a Weihenstephan o alla VLB mentre i brauer sono in un possesso di un diploma specifico di scuola superiore.

In Italia, nei ruggenti anni del pionierismo artigianale, non avevamo più alcuna istituzione accademica deputata a formare tecnici o mastri birrai: l’IPSIA “Carlo Rizzarda” di Feltre (BL), che ospitava dall’anno scolastico 1951/52 un corso di formazione professionale per birraio legato a doppio filo alla fabbrica di Pedavena, aveva infatti chiuso tale curriculum di studi fin dal lontano 1978. Questa assenza di possibilità di alta formazione in aula forniva facili e scontati argomenti a personaggi che, quasi sempre per tutelare i propri interessi commerciali da distributori o rivenditori di birre industriali italiane ed estere, denigravano a priori il lavoro dei primi birrai artigiani nostrani ripetendo ossessivamente “all’estero i birrai vanno all’università, da noi persone che lavoravano fino al giorno prima come imbianchini o elettrauto si improvvisano produttori di birra”. 

Un gustoso aneddoto in tema riguarda il mio caro amico Andrea Semilia, bravissimo mastro birraio in forza a Birra Gaia, che tra il 2013 e il 2014, dopo un apprendistato fatto di homebrewing corroborato dalla sua formazione accademica in chimica, aveva avuto l’opportunità di mettersi alla prova sull’impianto di un brewpub della Bergamasca: la prima telefonata con il suo predecessore, un mastro birraio tedesco assunto a chiamata dalla precedente proprietà del brewpub, era stata in buona parte dedicata a un dialogo da teatro dell’assurdo perché il teutonico interlocutore non si capacitava di come Andrea fosse autorizzato a mettere mano su un impianto senza aver frequentato una specifica università o avere quantomeno in tasca un diploma scolastico da tecnico birraio. 

Noi degustatori sovente ripetiamo che è il bicchiere l’unico giudice dell’ordalia e le birre di Andrea si rivelarono nettamente migliori di quelle del laureato germanico, la formazione in aula non va però per questo sottovalutata perché può essere un formidabile aiuto e una grande discriminante, specie di fronte a problemi più o meno gravi che possono sempre occorrere: oggi i nostri mastri birrai o aspiranti tali possono contare tra svariati percorsi scolastici e accademici senza dover necessariamente emigrare all’estero.