Che fine ha fatto il Grande Belgio? (Parte I)

Immaginate un’Italia senza rete Internet e senza microbirrifici artigianali autoctoni: per i più giovani dal punto di vista anagrafico si tratta, appunto, di un esercizio di fantasia, utopico o distopico a seconda dei punti di vista, ma per la platea dei più anziani, quantomeno considerando la vecchiaia della loro passione birraria, è semplicemente il ricordo di un tempo passato e vissuto, che può essere accompagnato da nostalgia o da soddisfazione per averlo lasciato alle spalle.

In questo universo meno vario e complesso, dunque, l’offerta birraria disponibile nel nostro Paese si riduceva a quanto fosse reperibile nei bar e nei pochi pub della propria città, inoltre, situazione che oggi potrebbe sembrare incredibile, per l’appassionato della prima ora non era raro emozionarsi perfino di fronte a uno scaffale di supermercato più fornito rispetto alla media dei concorrenti.

La birra era, per una fetta ben più ampia della popolazione rispetto ad oggi, una lager chiara poco alcolica e vagamente amarognola prodotta da un birrificio industriale italiano oppure importata da Germania, Austria o Nord Europa e l’unica variante ammessa, per i più, era la birra rossa, creatura mitologica che vanta ancora nel XXI secolo un neppure troppo ristretto manipolo di fedeli adepti sicuri di riconoscerla con precisione in poche ma ben precise occasioni (che poi ciascuno degli adepti identifichi come la vera rossa qualcosa di completamente diverso rispetto agli altri è una vasta questione che meriterebbe una trattazione a parte).

Per chi rifiutasse di principio l’abitudinarietà o fosse sinceramente interessato a capirne di più sulla spumosa bevanda, dunque, prelevare una Weizen dallo scaffale del supermercato o ordinarla in pizzeria, magari abbozzando pure un abbinamento con gli ingredienti della farcitura, era già un primo rilevante segno di differenziazione dalla massa. 

Naturalmente gli irish pub, che colonizzarono in gran numero le nostre città nei primi anni Novanta, vennero accolti dai protogeek dell’epoca come una salvifica novità che permetteva di trascorrere delle serate in compagnia di birre nere come la pece spillate al carboazoto. Cionondimeno i veri oggetti di culto, in grado di suscitare sentimenti forti, a cavallo tra passione e perversione, e di far scoccare una scintilla in grado di infiammare i cuori, erano inequivocabilmente le birre belghe. Perché? Sicuramente perché si trattava di prodotti di qualità, specie se comparati con il resto dell’offerta, e si differenziavano nettamente dalla massa indistinta delle lager industriali da molti punti di vista. Proviamo a ricordarli insieme.

Il potere delle immagini: questione di etichetta
Etichette e nomi di un gran numero di specialità belghe risultavano all’epoca decisamente curiosi e attraenti, specie a fronte all’evidente piattume grafico e lessicale delle birre più mainstream, sovente commercializzate con il solo nome del produttore e un’etichettatura del tutto priva di immagini e guizzi creativi.  Del resto le major lasciavano solo agli spot televisivi e alle inserzioni su carta stampata il compito di evocare uno scenario di consumo, anch’esso, peraltro, sovente trito, scontato e imperniato su pochi stilemi quali: spiaggia/falò/grigliata/ragazza bionda sorridente, graziosa e, strano a dirsi, disponibile, oppure nella variante partita in tv/gruppo di amici/bevuta dal collo della bottiglia con pietosa dissolvenza in nero a coprire il momento dell’inevitabile “rutto libero” di fantozziana memoria. A confronto, le immagini di pirati, bucanieri, briganti, diavoli e satanassi di ogni forma e colore, gnomi, elfi, streghe, elefanti rosa, cherubini, personaggi natalizi, remote abbazie, vetrate gotiche e pesci saltellanti che istoriavano (e ancora istoriano) le bottiglie di molte birre fiamminghe e valloni portavano per mano l’aspirante bevitore in una dimensione autenticamente evocativa ed onirica: prima ancora di berle, queste birre ci avevano già regalato sogni a occhi aperti in luoghi e tempi lontani.

Angeli e demoni: il fascino del proibito e la coincidenza degli opposti
La contrapposizione tra birre in odore di santità, che fossero autenticamente trappiste, più semplicemente “d’abbazia” o, anche soltanto caratterizzate da un’iconografia richiamante ambienti monastici o entità angeliche, e birre sataniche, segnate dalla presenza nel nome e nell’etichetta da creature infernali o da personaggi dalla professione canonicamente ritenuta incline alla malvagità, ha colpito l’immaginazione di qualunque appassionato della prima ora delle birre belghe. Il fascino del proibito, ai confini del sacrilego e del blasfemo, era inoltre acuito dalla constatazione che molto spesso i nettari dedicati ad angeli e demoni avessero caratteristiche tipologiche e organolettiche piuttosto simili.

Booze matters
Il grado alcolico da medio a decisamente elevato di queste birre ha avuto un innegabile ruolo nella costruzione della loro fama e di quella della nazione di provenienza. Ciò è avvenuto sia in relazione al punto precedente, dal momento che un considerevole tenore etilico era interpretato sia come scala a pioli per il paradiso, previe audaci visioni mistiche, che, all’opposto, come botola spalancata verso sfrenati baccanali e la conseguente perdizione, sia, in senso più lato, perché una birra forte attraeva inevitabilmente come una magnete l’attenzione dei bevitori più giovani, curiosi e a caccia di esperienze estreme. I ragazzi che negli anni Ottanta e Novanta bevevano Belgio perché non si accontentavano della “solita bionda” sono infatti divenuti in numero significativo  birrai, degustatori e gli appassionati della prima generazione.

La parola al bicchiere: varietà, profondità e intensità
Etichette, nomi e ambientazioni hanno giocato un ruolo importante, certo, ma quando si tratta di birre l’ultimo e definitivo giudice è sempre il bicchiere e, pertanto, le ragioni del passato successo delle birre belghe vanno ricercate in primo luogo nelle caratteristiche organolettiche. Schiuma imponente, di lunghissima persistenza e, in caso di inaccorta mescita da bottiglia alla John Wayne, ovvero tutta d’un colpo senza lasciare al suo posto il fondo di lieviti, puntellata da arcane macchie brune che lasciavano perplesso il bevitore neofita; profumi intensi e opulenti di pera matura, pesca sciroppata, banana, noce, mandorla, pepe bianco o nero, coriandolo, scorze d’agrumi, pan pepato, datteri, cacao: già molto prima del primo sorso una belga faceva subito capire che non sarebbe stata la solita birra. L’utilizzo di spezie e altri ingredienti speciali e la grande creatività esibita dai birrai fiamminghi e valloni, ciascuno in grado di dare un’identità peculiare e inconfondibile alle proprie creature, sono state importanti chiavi per stimolare la curiosità dei bevitori e hanno avuto un notevole impatto anche nel plasmare la forma mentis della prima generazione di birrai artigiani italiani. Anche per chi avesse colpevolmente trascurato le componenti visive e olfattive, la sorpresa sarebbe comunque arrivata al gusto: sentori analoghi a quelli poc’anzi descritti su una trama in prima battuta dolce (senza mai sfociare però nella stucchevolezza, almeno nei migliori esemplari della specie) ma, soprattutto, dal carattere potente, con un’elevata persistenza anche nel retrogusto e retrolfatto. Uno schiaffo in pieno viso allo stereotipo della birra come bevanda leggera, amarognola, gustativamente poco intensa e, di conseguenza, adatta a un consumo disimpegnato: per un popolo devoto al vino come il nostro è del tutto plausibile che le grandi belghe ci abbiamo insegnato, tra le altre cose, che anche la birra merita di essere degustata con la dovuta attenzione e può riservare una nuova sorpresa a ogni sorso.