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Blend birrari: quando mescolare la birra non era reato

Mischiare birre diverse: goliardia e ricerca, una consuetudine che ha tradizioni radicate e, a ben vedere, buone ragioni per affermare il proprio diritto di esistere. A chi pratica gli ambienti dei passionisti dell’assaggio, non sarà certo mancata occasione di utilizzare gli scampoli di più bicchieri, per eseguire uno o più blend di due o più tipologie. Semplice regressione adolescenziale? Semplice, insomma, voglia di paciugare, dettata dall’euforia tipica che accompagna la conclusione del lavoro da parte di un tavolo di degustazione? Non proprio; anzi, le ragioni recondite di tale pulsione hanno una dignità ben maggiore, che poggia su un concetto di blend come metodo. Un metodo foriero, a certe condizioni, di risultati di assoluta considerazione. No, tranquilli, non ci accingiamo a un tentativo di nobilitazione dei cocktail più irriguardosi e modaioli, né a un’apologia di consuetudini puramente folcloristiche quali ad esempio le cosiddette birre verdi (in realtà un mix di Ale o Lager chiara e Blu Curaçao) tracannate per il San Patrick Day. Parliamo d’altro: parliamo di attitudini storicamente documentate, che hanno attraversato le pagine del romanzo della birra.blend 1A tale proposito, portiamo tre esempi. Il primo – quello più noto e sul quale c’è meno da soffermarsi in spiegazioni – è quello riguardante uno stile antico e pregiatissimo quale quelle delle Gueuze belghe. Premesso l’ovvio primato, se non altro genealogico, da assegnare al Lambic puro, è tuttavia ben noto come la tipologia a fermentazione spontanea più diffusa sia appunto la Gueuze: per realizzare la quale occorrono attente e raffinate operazioni di unione tra Lambic di età diverse.

Il secondo esempio ci porta invece nell’Inghliterra del periodo a cavallo tra XVII e XIX secolo, in particolare nella Londra di quei decenni. Uno scenario in cui, entrata prepotentemente in scena l’ambrata Pale Ale (allora più rara e costosa, in quanto richiedente un apporto tecnologico maggiore, rispetto alle correntemente consumate Brown Ales), non di rado, nei pub della capitale britannica, il nuovo stile veniva bevuto in versione mixata con altri, più comuni e a buon mercato: le fonti storiografiche citano le tipologie designate, rispettivamente, come semplice Ale (una Brown di media gradazione, rispetto alla più robusta Stout); e come Beer, più leggera e luppolata. Anzi, si ritiene che il pubblico londinese fosse piuttosto incline ai cocktail birrari; e che, prima ancora dell’avvento della Pale, fosse già uso a sorseggiare composizioni delle appena menzionate Ale e Beer.

birre differenti spina

Con la terza e ultima testimonianza della tradizione storica del blending, rimaniamo in Gran Bretagna, ma compiendo un salto temporale fino al secolo scorso. Siamo, in particolare, nel periodo che va dalla fine del primo conflitto mondiale ai primi anni Trenta. In questa fase un regime d’imposizione fiscale piuttosto esigente induce a spostarsi (per pagare meno tasse) sulla commercializzazione di birre più leggere in taglia etilica: le quali però, nella mescita a pompa, prestano il fianco a un più rapido decadimento organolettico. E allora? Allora gli aficionados dei pub pongono rimedio in questo modo: sviluppando la pratica, che viene ad avere una diffusione considerevole, di rianimare – proprio con l’aggiunta di prodotti in bottiglia – quelle pinte uscite non in formissima dal servizio alla spina. Ne nascono alcuni drinks che, al tempo, avranno una loro solida notorietà: come il Light-and-bitter (Pale Ale bottle conditioned a bassa gradazione mixate con una Bitter a pompa); o il Brown-and-mild (Brown Ale in bottiglia e Mild alla spina).

E domani? Ci saranno – e se sì, quali – nuovi orizzonti per i blend birrari?