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Le birre del cuore: l’Orval

Non ricordo con precisione quando scoppiò il grande, eterno amore tra me e la trappista nel birillo, ma credo di non sbagliare di molto se azzardo si possa collocare intorno ai primi anni ’80. A differenza di quello che mi successe con lambic, oud bruin e flanders red, non è stato galeotto il libro di Michael Jackson ma proprio l’originalissima foggia della bottiglia vista in un beer-shop all’ingrosso, se non sbaglio a Mouscrons, durante un viaggio in autostop in Vallonia. Appena saputa la mia origine italiana, la titolare mi raccontò tutta la storia dei due frati calabresi, di Matilde di Canossa, del marito Goffredo il Gobbo, dell’anello e della trota, ma non mi disse nulla sulla birra se non che fosse trappista.

 

Eppure quante cose c’erano da dire! Me ne accorsi subito dopo averla aperta e versata nella bellissima coppa che naturalmente avevo comprato quel fatidico giorno. Schiuma abbondante, più da spumante che da birra, che decresceva ma senza sparire, e soprattutto un gusto inedito, unico, che ancor oggi, seppur venga attaccata dai puristi dell’epoca, riesce a sorprendere nel mare dell’appiattimento e dell’omologazione che purtroppo, anche nel mio adorato Belgio, tra tante gemme purissime, troviamo a piene mani. Avrei mille aneddoti legati a lei e spero, nella selezione che ho operato, di aver inserito i più curiosi e divertenti. 

Partirei con il mio rapporto che definirei di amicizia conflittuale con Jean-Marie Rock, noto per il suo caratterino non facile, leggendario birraio Orval per quasi trent’anni che, raggiunta l’età di 65 anni, lasciò nel 2013 il comando all’ex-responsabile del laboratorio, Anne-Françoise Pypaert. Lo conoscevo da tempo, so che mi stimava come degustatore tanto che mi chiedeva di inviargli feedback su eventuali pulci da fare per le cotte che assaggiavo con regolarità a partire dal secondo al dodicesimo mese di imbottigliamento. Ovviamente mi sentivo onorato, anche se non aveva molto senso comunicargli feedback e pulci visto che poi lui, da emerito bastian contrario, smentiva regolarmente tutto.  Per avere un’idea del personaggio, suggerisco di godervi le risposte che diede alle domande dell’intervista che gli posi nel 2015 per Movimento Birra, e che potete trovate ancora sul sito dell’associazione.

Questo capolavoro di birra ha, secondo me, nel bene e nel male, un delicato equilibrio dovuto ad una complessa caratterizzazione di difficile descrizione. Mi spiego meglio ricorrendo all’esempio che spesso faccio nelle mie presentazioni e degustazioni. Se arriva un venusiano sulla terra e chiede a noi terrestri, dopo averla vista per la prima volta in un mercato, di cosa sappia una carota, noi non sapremo rispondere se non con un banale ma imprescindibile “una carota sa di carota”. Se invece ci chiedesse di cosa sappia un cardo noi risponderemmo che il suo gusto assomiglia un po’ al gambo del carciofo. Beh, l’Orval è come la carota, sa di Orval, e scusate se è poco! Questo per dire che basta un niente perché si noti anche un benché minimo cambiamento. Il fatto che poi col tempo sia cambiata e che le percezioni dell’amaro conferite dal dry hopping e del rustico conferite dal bretta siano meno intense è un dato di fatto ma anche, se vogliamo, un altro paio di maniche.

Io comunque, specie quando sono a casa, una Orval al giorno non me la faccio mai mancare. Rappresenta un rito, una sorta di autoprescrizione medica e spesso l’abbino, a volte con discernimento a volte volutamente senza, ai piatti che cucina mia madre o che cucino io, sempre rigorosamente immortalati col cellulare.

Se devo privilegiare un aneddoto legato alla nostra Orval, la pole position va indubbiamente assegnata a quello che ogni tanto racconto, legato ad una mitica riunione dell’EBCU, autunno 1999, ospitata dall’OBP (De Objectieve BierProevers) che si teneva al Quinten Matsijs, il più antico caffè di Anversa, del 1565, stesso periodo dei capolavori di Pietro Bruegel il vecchio. Come spesso avveniva, la riunione era innaffiata da un numero impressionante di birre, per lo più ad alta gradazione, prima del pranzo che consisteva in una tonnellata di carbonade flamande estratta da monumentale pentolone, cotta a lungo nella Westmalle Dubbel, accompagnata da fiumi della stessa birra. Eravamo tutti ben carburati, anche se io, soprattutto all’epoca, ero una roccia impossibile da scalfire, mentre gli altri colleghi già li vedevo muoversi al rallentatore. In particolare notavo vacillare il delegato fiammingo, due metri di altezza e più di un quintale di peso. E fu allora che mi venne in mente di provare a prenderlo in castagna. A bruciapelo gli domandai quale fosse la birra più buona del Belgio e lui all’istante rispose Orval ma subito dopo, resosi conto di avere scelto una birra della Vallonia, cercò di riprendersi dicendo che lui ogni giorno beveva la Poperinge Hommelbier. Troppo tardi, possiamo quindi affermare, senza rischio di essere smentiti, come sia l’Orval la birra più buona del Belgio e quindi del mondo!

Sono molto affezionato a questa birra anche per il ruolo fondamentale, direi anzi decisivo, che ha giocato nella scelta del bicchiere universale da degustazione, ideato da me e Teo Musso, che in seguito venne chiamato TeKu e che è diventato il bicchiere più apprezzato e temuto sull’intero pianeta Terra. Teo ne disegnò alcuni prototipi con i quali girai in lungo e in largo per circa un anno provandoli su un gran numero di birre di stili completamente diversi. Dopo una durissima selezione, riuscimmo ad individuare i due bicchieri finalisti. Il primo più tondeggiante e più bello a vedersi, il secondo più spigoloso e meno armonico e attraente. Decisi di porli a confronto alla cieca procurandomi 64 Orval cercandole abbastanza giovani in modo di rendere ancor più difficile e quindi più probante il poter cogliere anche il più impercettibile dei difetti. Sebbene sia normale per questa birra da giovane avere una frizzantezza molto elevata, quella della prova l’aveva un filo troppo e questa sensazione tattile la colsi, parola del boy-scout che non sono mai stato, ben 64 volte solo nel secondo bicchiere che così divenne il TeKu che conoscete oggi. Una curiosità, per concludere. Una volta lessi in rete che il numero perfetto per valutare le birre fosse 64 dato che Kuaska aveva scelto quel numero preciso per stabilire il vincitore della finale dei bicchieri per mezzo appunto di 64 Orval. Non vorrei deludere quel giovane appassionato ma impiegai 64 Orval semplicemente perché me le procurai, senza dare nell’occhio, alla Metro utilizzando la tessera di mia sorella, e alla Metro le confezioni all’ingrosso erano da 16 bottiglie: 16 per 4 fa 64!