Il Parlamento approva la definizione di birra artigianale
Se il 1996 è già negli annali come il punto temporale corrispondente al big bang della birra artigianale italiana, il 2016 andrà in archivio come un anno spartiacque, che sarà sicuramente menzionato nella cronologia del fenomeno craft italiano. Molte infatti le vicende che hanno scosso il settore in questo anno non ancora concluso. Sicuramente ci ricorderemo del 6 luglio 2016, giorno in cui il Ministero delle politiche agricole ha reso nota l’approvazione, da parte del Senato, del cosiddetto collegato agricoltura (promosso recentemente alla Camera); e, con esso, del comma 4 bis dell’articolo 2, riguardante proprio una definizione, la prima di carattere formale per il nostro Paese, di birra artigianale.
Ma veniamo all’articolo in questione che riportiamo integralmente:
Si definisce birra artigianale la birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e microfiltrazione. Ai fini del presente comma si intende per piccolo birrificio indipendente un birrificio che sia legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio, che utilizzi impianti fisicamente distinti da quelli di qualsiasi altro birrificio, che non operi sotto licenza e la cui produzione annua non superi i 200mila ettolitri, includendo in questo quantitativo le quantità di prodotto per conto terzi.
Va da sé come un simile inquadramento apporti conseguenze immediate. Sarà dunque possibile, legalmente intendiamo (ricordiamoci il caso Almond’22), scrivere in etichetta Birra Artigianale, se ovviamente si rientra nella definizione. Ad esempio tutte le crafty delle multinazionali non potranno usare tale dicitura. Esce dal perimetro formale del segmento craft nazionale anche una realtà come Birra del Borgo che nell’aprile scorso ha ceduto l’intero pacchetto societario ad AB InBev ovvero al maggiore colosso multinazionale del settore birrario.
Confermato inoltre il limite di 200.000hl, che va a recepire un parametro individuato dalla direttiva europea in materia. Un altro aspetto che merita approfondimento riguarda le beerfirm. Molti proprietari di marchi di birra prodotta presso altri impianti (il conto terzi pesa circa il 30%) si sono allarmati alla lettura della norma, ingiustificatamente: abbiamo una definizione di prodotto che vieterà l’utilizzo della dicitura Birra Artigianale solo a quelle beerfirm che faranno produrre birra a produttori che non rientrano in questa definizione.
Un’altra questione di fondamentale importanza, a cui il Parlamento dovrà rispondere in tempi brevi, convocando un tavolo tecnico, sarà la definizione oggettiva di pastorizzazione e filtrazione. Sappiamo quanto l’argomento sia controverso nel mondo craft italiano. Ci sono birrifici (pochi) che cominciano a pastorizzare e rifermentare in bottiglia, alcuni che, pur rientrando nella definizione, microfiltrano in maniera piuttosto spinta. In altre parole, prima della pubblicazione dovrà essere specificato che cosa si intende per pastorizzazione e per filtrazione (quanti micron?).
Positivo, almeno sulla carta, anche l’intervento normativo teso a incentivare la produzione, trasformazione e commercializzazione nel settore del luppolo. Riportiamo anche in questo caso l’articolo approvato:
Filiera del luppolo
Il ministero delle Politiche agricole favorisce il miglioramento delle condizioni di produzione, trasformazione e commercializzazione nel settore del luppolo e dei suoi derivati. Per questo scopo lo stesso Mipaaf destina quota parte delle risorse iscritte annualmente nello stato di previsione dando priorità al finanziamento di progetti di ricerca e sviluppo per la produzione e i processi di prima trasformazione del luppolo, per la ricostituzione del patrimonio genetico del luppolo e per la individuazione di corretti processi di meccanizzazione.
Forse vado contro corrente, ma a mio parere la prima distinzione da fare sarebbe proprio quella tra Beerfirm e Birrificio Artigianale vero e proprio con impianto e tutto il resto. Non dico che le Beerfirm non mi piacciano, anzi… però io vorrei SAPERE cosa sto per acquistare.
Tempo fa su uno dei tanti forum per homebrewers, ho partecipato ad una discussione in cui un fantomatico “produttore di non so quanti ettolitri di birra in beerfirm” rispondeva con concetti sbagliatissimi a chi aveva posto la domanda. Quando gliel’abbiamo fatto notare ha risposto “io ho una beerfirm, voi producete 20 litri alla volta, ho ragione io!”…Ecco… io la birra di questo individuo proprio non la vorrei MAI bere… ma se me la sbattono nella scansia del birrificio, con una bella etichetta e una bella bottiglia… sarei tentato di acquistarla.
Tutto ciò per dire… ci sono ottime beerfirm, rinomate e pluripremiate che producono ottime birre, ma è troppo facile instaurarne una ed andare a produrre dove si vuole per poter poi vendere le nostre birre… Io stesso, che sono ad un livello medio di conoscenza in all-grain, potrei da un giorno all’altro andare al birrificio vicino a casa (tra l’altro altre beerfirm vanno spesso a produrre li) e farmi i miei fusti e bottiglie per poi proporle per la vendita, magari allo stesso prezzi di birre rinomate.
Questo secondo me non è giusto, in primis nei confronti dei birrifici veri e propri, che hanno altri tipi di spese e modalità di sostentamento, e anche, come detto, nei confronti dell’utente finale.
Io dico… ben vengano questo tipo di progetti, ma che siano ben catalogati e specificati nella bottiglia/fusto.
Ottima invece la norma sul luppolo.