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Il luppolo in Belgio: storia di un amore controverso

campi luppoloIl Belgio, la birra e il luppolo: una bella storia. Bella perché articolata. Bella perché parte da una assenza e finisce (per ora) con una “doppia presenza”. Chi conosce un po’ la storia del fare birra in Belgio, non può non essersi imbattuto in una parola magica: gruyt. Era quella miscela fatta di erbe e spezie, racchiusa in un piccolo sacchetto di stoffa, che ogni mastro birraio belga del Medioevo tuffava nel pentolone del mosto. Lo scopo era quello di regalare alla birra un gusto specifico, inconfondibile, oltre a prolungarne la vita degustativa. Lo adoperavano tutti, ciascuno a modo proprio, perché il luppolo, allora, non si usava. In primis, perché fino all’XI secolo non se ne conoscevano a fondo le caratteristiche organolettiche (che in seguito si sarebbero rivelate perfette per il suo impiego birrario); in secundis, perché era proibito usarlo, visto che sul gruyt i birrai (quelli laici, non i monasteri) ci pagavano le tasse. La storia del luppolo inizia quindi con la sua assenza, che però, a partire dal XVI secolo si trasforma in presenza. Dal 1500, infatti, viene meno, in Belgio, il diritto di gruyt, e ognuno la birra comincia a farsela con quello che più gli piace. E poiché in Belgio di luppolo ce n’era (veniva coltivato nella zona di Aalst – Asse Poperinge, Fiandre Occidentali fin dall’VIII secolo) i birrai fiamminghi cominciano ad adoperarlo in maniera sistematica, istruiti nell’uso dai colleghi tedeschi, che già da molto tempo lo impiegavano per le proprie birre.

luppoloL’uso di luppolo fece progressivamente esploderne la produzione, sempre nella zona di Aalst-Poperinge, che nel periodo di massimo splendore (1880) si estendeva su di una superficie di ben 4185 ettari (oggi ne sono rimasti 180, per una produzione annuale di 365 tonnellate di luppolo). Tanto luppolo, quindi, ma impiegato come? I birrai, più che come amaricante, lo usavano come stabilizzante e conservante della birra, che manteneva una forte struttura maltata e una caratterizzazione abboccata. Questa deriva “dolce”, nel contesto della produzione brassicola belga, è diventata una caratteristica ancor oggi abbastanza diffusa: numerosi sono gli esempi dei famosi “dolcioni” che i non amanti della birra belga scansano come il eccato. Nell’amplissimo contesto della produzione brassicola locale non mancano però numerosissimi ed ottimi esempi di birre spiccatamente luppolate ed amaricanti, che costituiscono un settore produttivo di grande pregio. Un filone che sembra, in questi ultimi tempi, potersi dividere in due diversi segmenti: ecco perché all’inizio ho parlato di “doppia presenza” luppolata. Il segmento alfa, quello più legato alla tradizione, storicamente costituito da numerosissime produzioni di eccellenza nella tipologia delle triple, delle belgian ale, delle saison stesse, nelle quali l’uso oculato, equilibrato, elegantissimo di luppoli tradizionali – saaz, hallertau, styrian – rasenta la perfezione. I nomi: la madre di tutte, la Westmalle Triple, seguita a ruota dalla Chimay Triple, la St. Bernardus Triple, la Dulle Teve di De Dolle, la Moinette Blonde di Dupont. Ma anche l’Orval “prima maniera”, la Duvel non ancora annacquata, la superba Westvletern 8°, la Witkap Stimulo, tutto l’eccezionale range produttivo di De Ranke (Hop Harvest, Saison de Dottignies e XX bitter in testa), la Taras Boulba e la Zinnebier di De la Senne, la Hommel Bier di Van Ecke.

Birra Home page 3E mi fermo qui, ma solo per motivi di spazio: ognuna delle birre sopra citate rappresenta un must, e se uno vuole andare sul sicuro/tradizionale (luppolato, belga), da lì deve cominciare a pescare. E poi c’è il nuovo segmento, il segmento beta, che ha cominciato a fare capolino da pochi anni in Belgio, quello identificato con un neologismo birrario, Belgian IPA. Non tutti sono d’accordo su questa ulteriore specificazione/frammentazione stilistica (Beeradvocate la ammette, Ratebeer no, ad esempio); questa “categoria” non compare fra le 120 codificate dalla Bibbia del settore, la Beer Style Guidelines aggiornata ogni anno dall’americana Brewers Association. Ma cominciano ad essere un po’ tante in Belgio le birre associabili a questa tipologia per continuare a far finta di niente o ad incasellarle in categorie all’interno delle quali ci stanno effettivamente un po’ “strette” (come quella delle triple, ad esempio, o delle belgian strong ale). Cosa sono le Belgian IPA? Intanto è uno stile ancora in “evoluzione”, popolato comunque di birre prodotte in Belgio – ma anche negli USA si danno molto da fare – con l’occhio puntato sul mercato americano. Ispirate alle IPA americane, sono caratterizzate da malti diversi e lieviti esclusivamente belgi, con una parziale incursione nel territorio dei luppoli extra europei, che conferiscono un profilo aromatico e gustativo più agrumato e resinoso.

belgian_beersTutto questo è cominciato con la Duvel Triple Hop e la Chouffe Houblon, due birre brassate in Belgio ma pensate appunto per il mercato americano: luppoli saaz, amarillo e styrian goldings (usato in dry hopping) per la prima, tomahawk, saaz e amarillo per la seconda, primi esempi in assoluto di commistione luppolata in terra belga. Due birre che hanno aperto una strada, con la Houblon che è rimasta continuativamente in produzione – anche per il mercato europeo – e la Tripel Hop che è stata ri-brassata a furor di popolo dopo l’esaurimento in un batter d’occhio del primo lotto produttivo di 20.000 bottiglie. In questa strada ci si sono infilati in tanti, a partire da Hildegard van Ostaden, mastro birraio(a) di Leyerth, che con la sua Urthel Hop It ha messo il piede nel mercato USA, e dai birrai della Het Anker con la loro Gouden Carolus Hopsinjor. Poi sono arrivate la ‘t Smisje + dubbel IPA (ora non più in produzione), le due dell’Alvinne, Gaspar Ale (115IBU) e Extra Restyled, la splendida Valeir Extra di Contreras (brassata con luppoli sterling e amarillo), la Troubadour Magma (saaz e simcoe in dry hopping) vincitrice del concorso legato allo Zythos del 2010 (nella versione 2011 il simcoe è stato sostituito dal cascade), la Bitter Truth del giovane birrificio Het Alternatief, la Belgo Luppoo di Binchoise, la St. Helene Simcoe e le due di Struise (un birrificio artigianale belga molto eclettico), la Ignis Et Flamma (con luppoli galena, simcoe, cascade, chinook, amarillo) e la Svea IPA, la Slock di De Graal. Un po’ ai margini della categoria (ottima birra, comunque) la Very Speciale Belge di De La Senne, una golden ale brassata in collaborazione con gli americani di Allagash arricchita dai luppoli americani nugget e centennial. Poi ci ha provato anche la sezione non-artigianale della produzione birraria belga, con risultati però altalenanti: la migliore è la Hopus della brasserie Lefebvre, la Over the Edge della Van Steenberge è stata brassata per il solo mercato americano, molto stancante la Brigand IPA, apparsa per poco la Belgica di Strubbe. E anche qui, mi fermo; ma si potrebbe ancora continuare.

bandiera belgio birreTradizione ed innovazione, quindi, in una nazione, quella belga, da secoli alla ribalta della scena birraria mondiale e depositaria di un sapere produttivo stratificatosi nei secoli. Nazione che difende le proprie birre con marchi di qualità riconosciuti non solo a livello locale: le Belgian Family Brewers, il marchio che tutela e rende riconoscibili le birre trappiste e quelle d’abbazia, il marchio TSG – specialità tradizionale garantita – che tutela il lambic. Poteva mancare il luppolo in tutto questo? Assolutamente no: da un paio d’anni è infatti attivo il consorzio di produttori di luppolo di Poperinge che ha registrato un marchio, quello di Belgische Hop, che rende riconoscibile e tutelato il luppolo prodotto in loco e viene rilasciato a quei birrifici che usano almeno il 50% di luppolo belga per brassare le proprie birre. I primi otto birrifici che hanno potuto fregiarsi di questo logo sono stati: Jessenhofke, Van HonsebrouckDen Tseut, De Plukker, Sint Bernardus, Den Triest, Antwerpse Brouw Compagnie, Seizoensbrouwerij Vandewalle. Un occhio attento alla novità, come abbiamo visto, ma con i piedi ancora ben piantati nella tradizione.

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Articolo tratto da Fermento Birra Magazine n. 2