Si parlava, nelle twenty questions dello scorso articolo che vi avrebbero fatto scoprire quanto geek siete a vostra insaputa, del riconoscimento di una birra per il suo acronimo. Da sempre, il perverso e immediato mondo di internet ci ha abituati al loro utilizzo per abbreviare azioni, frasi, concetti: alzi la mano chi non ha mai scritto (o si è visto scrivere) almeno una volta LOL, ROTFL, BRB, AFK. Come dite? Fa un po’ da nerd della tastiera? Be’, per le birre è uguale. Si abbreviano festival, manifestazioni, locali, birrifici e, naturalmente, bottiglie. E ora che ci siete dentro con tutte le scarpe, non dovreste stupirvi. Bando alle ciance, dunque, e scioriniamone alcuni tra i più noti. FVM (French Vanilla Militia, variante della DL, ovvero la Dark Lord dei FFF, ovvero i Three Floyds), BAVSS (Barrel Aged Vietnamese Speedway Stout di Alesmith), ANTEAD (A Night To End All Dawns di Kane), DBR (Discount Burt Reynolds di Cycle), KBS (Kentucky Breakfast Stout di Founders, lo trovate scritto pure sull’etichetta), CBS (Canadian Breakfast Stout, leggendaria variante della KBS con sciroppo d’acero)… e la lista potrebbe continuare a lungo, purché alla fine contempli il più popolare di tutti: BCBS. Che a pronunciarlo in italiano fa venire in mente un qualche dialetto dell’Africa occidentale, il consiglio è quindi scandire le lettere in inglese: Bì-Sì-Bì-Es.
Stiamo parlando, per chi non lo sapesse o avesse intuito già, della Bourbon County Brand Stout di Goose Island. Esatto: quelli che nel 2012 sono stati comprati dal gruppo Ab-InBev. Loro. L’industria. I mostri. I cattivi. Orrore, paura, raccapriccio! Pare già di sentire i toni indignati e scandalizzati della domanda che molti lanceranno come una pietra, cercando di cogliermi in fallo: ma allora, un geek beve birra non artigianale (leggete la parola aggiungendo un numero di “g” a piacimento per rafforzare il concetto)??? Ecco: il fardello che la BCBS porta con sé contiene uno dei dilemmi più spinosi degli ultimi anni, foriero di discussioni che hanno portato, e portano ancora, la gente a scannarsi sul web. Cosa si fa in casi del genere? La questione è indubbiamente complessa e apre a una serie di dibattiti arcinoti, per cui non ci dilungheremo nell’approfondire. Anche perché, i migliori professionisti dell’ambiente vi darebbero la sacrosanta risposta che moltissimi avranno già letto su forum e gruppi Facebook: una birra artigianale fatta male può essere di gran lunga peggiore di una Peroni. Da parte mia, tornando in tema, vi basti sapere che, andando a smontare forse il luogo comune numero uno che li riguarda, un beer geek non è un beer snob. In tutto e per tutto. Ed esistono situazioni, circostanze, diversissime tra loro, che vi potrebbero portare a bere qualcosa sulla cui produzione è impresso il marchio di un colosso multinazionale. Capiterà, sappiatelo. Non ve ne dovrete vergognare: non ne morirete, ma soprattutto non ne morirà il mondo della birra craft.
La BCBS è un esempio validissimo di quanto voglio dire. Questa birra – e particolarmente le sue varianti – ha rappresentato una delle massime espressioni di sempre nello stile delle Imperial Stout passate in botte; anzi, si può affermare con sicurezza che ne è stato un paradigma, un riferimento assoluto, per almeno una decina d’anni. Per darvene un’immagine affinché capiate che non sto esagerando: nel 1995 fu squalificata dal GABF (Great American Beer Festival: altro acronimo!) perché non rientrava in nessuna delle categorie presenti. In altre parole, non era definibile. Era stata presentata, in verità, la prima volta nel 1992: una specialità episodica, per festeggiare la cotta numero mille del birrificio. Seguirono poi una serie di release sporadiche, disponibili giusto al brewpub locale, culminate nel 2005 con il primo imbottigliamento ufficiale della birra. Da lì in poi, il successo prese una piega letteralmente esponenziale. Al crescere del programma di barrel-aging di Goose Island, nuove varianti affiancarono la base nel 2010: la BCBCS (Bourbon County Brand Coffee Stout), realizzata con il caffè della torrefazione Intelligentsia di Chicago; la BCBVS (Bourbon County Brand Vanilla Stout), dove erano stati impiegati baccelli di vaniglia; la RBCBS (Rare Bourbon County Brand Stout), passata per due anni in botte del celeberrimo Pappy Van Winkle 23 Years – considerato da molti il bourbon più pregiato, e ahimè costoso, di sempre.
L’etichetta semplice e diretta della BCBS, completamente nera, carattere bianco in rilievo con le parole BOURBON COUNTY – richiamo alla regione del Kentucky dove nacque l’omonimo whiskey di mais – in grande evidenza, il logo del birrificio a sormontarle, una breve descrizione della birra e la frase Develop for up to 5 years in the bottle, divenne un brand riconoscibile nell’immediato e destinato a rappresentare una delle identità più forti mai viste nel mondo craft da un punto di vista visivo. I bomber (denominazione della bottiglia americana in formato da 22 oz/65 cl) delle edizioni speciali della BCBS, inutile dirlo, assursero presto a vero e proprio oggetto di culto tra i geek. Fu stabilito di tenere la release annuale della birra – comprese tutte le sue varianti progettate per l’anno in corso – durante il famoso Black Friday, giorno successivo al Thanksgiving Day americano e dal 1952 inizio ufficiale della stagione dello shopping natalizio: ebbene, a partire dal 2010, in quel giorno orde di appassionati affollano, con tanto di code formatesi in ore e ore di anticipo (fenomeno che discuteremo in futuro), tutti i liquor-store d’America deputati alla vendita delle BCBS.
L’ascesa sembrava non aver mai fine, come se nulla potesse fermare la popolarità di una birra tanto ambita. Persino le polemiche esplose nel 2012, anno che segnò l’acquisizione del birrificio, al netto dei dilemmi esistenziali che le hanno accompagnate, parevano non importare ai geek; le prese di posizione furono parecchie, ma la cosa di fatto non intaccò il fervente e morboso interesse collettivo per le BCBS (anzi, potenziò la ricerca delle bottiglie precedenti al 2012). Addirittura, nemmeno l’abbandono dello storico responsabile del barrel-aging program di Goose Island, John Laffler, sortì un’inversione di rotta. Nel giro di un paio d’anni nacquero altre varianti: la Cherry Rye BCBS, il BCBS Barley Wine, la Bramble Rye BCBS, la Proprietor’s BCBS e, a grande richiesta, la riedizione della Vanilla del 2010 – chiamata stavolta Vanilla Rye (VR per noi geek) per via del passaggio in botte di whiskey di segale.
Ormai la BCBS era una macchina che funzionava e si muoveva, a passi da gigante, autonomamente, alimentandosi per autarchia, ma si sa, il tempo è paziente e i demoni ancor di più. Nel 2015, Goose Island annunciò un cambio radicale del design dell’intera linea BCBS: non solo il formato, fino ad allora da 12 oz (35.5 cl) per la bottiglia della versione base e da 22 oz per le varianti, fu portato ad uno standard unico di 16.9 oz (50 cl), adottando una forma pacchiana – che farebbe pendant con la credenza delle nonne di una volta – e impattando sul costo finale della birra; peggio ancora, la grafica fu rivoluzionata: facendo finanche a meno dell’etichetta, il riconoscimento tra le versioni sarebbe divenuto possibile solo grazie al colore di una specie di linguetta svolazzante applicata saldamente attorno al collo, con uno scarno richiamo al logo di un tempo che fu. Il fatto, poi, che fosse stata rilasciata la riedizione della Rare BCBS, la regina dell’hype che occupava la posizione numero uno nella classifica di Untappd, utilizzando però un bourbon meno difficilmente reperibile (Heaven Hill 35 years old) e imbottigliando circa sessantottomila esemplari contro gli “appena” dodicimila della Rare BCBS originale, sublimava l’idea di scelte commerciali poco azzeccate – se non relativamente ai soldi in più da spendere quell’anno per accaparrarsi le BCBS. Se tutto ciò poteva apparire quantomeno discutibile, il colpo di grazia lo diede, se vogliamo aggiungere un tocco letterario al racconto, il destino: dopo le prime voci serpeggianti, geek incazzati che avevano speso l’ira di dio e si sarebbero ritrovati a versare birra nel lavandino, confluiti in un tam-tam di protesta che faceva rumore, Goose Island, nei primi mesi del 2016, confermò ufficialmente la presenza di infezioni in alcuni lotti della BCBS base e in quelli delle varianti Coffee e Propietor. La politica del birrificio prevedeva rimborsi per chiunque avesse comprato bottiglie dei batch incriminati, ma fu logicamente un misero contentino. Qualcosa si era incrinato, o meglio rotto, in quel meccanismo perfetto che la BCBS aveva sempre incarnato: il mito, ormai, poteva considerarsi consegnato alla storia, ma quella definitivamente passata e senza più la capacità di sopravvivere ad una futura. Il cerchio si è chiuso a poco tempo di distanza dall’annuncio che confermava le infezioni: le BCBS del 2016, varianti comprese, sarebbero state pastorizzate (in verità, più propriamente si parla della tecnica nota come flash pasteurization, non nuova a molti) per prevenire alla radice un eventuale nuovo scandalo – che Goose Island non avrebbe potuto permettersi.
Vi chiederete, a questo punto, come la pensi io in merito all’intera faccenda. Tralasciando hype, fazioni, tifoserie, speculazioni, ritengo che la crescita delle dimensioni dei lotti, per una birra pregiata e con pretese di esclusività da far drizzare le orecchie a noi geek, non porti a niente di buono a lungo andare. L’espansione di Goose Island, da un certo punto in poi, è proseguita con una misura esponenziale che ha inevitabilmente coinvolto anche il programma di Barrel-Aging. La BCBS, una birra dalla forza liquida micidiale nei suoi tredici e passa gradi, capace di fondere il carattere di una Imperial Stout massiva, imperiosa, tostata con gli aspetti più morbidi e interessanti del bourbon, era un prodotto di rara eleganza, vellutata e pericolosamente bevibile. Negli anni ha via via perso la magia di un tempo, attestandosi su un livello senza dubbio molto alto, ma finendo per essere sovrastata dal suo stesso hype e classificabile come una tra le tante. Già le sue varianti, congegnate per fortuna in batch più ridotti, hanno dimostrato di saper reggere il peso del mito fino al cambio di veste e al triste episodio delle infezioni. Se vi capita di trovare qualche vecchia (diciamo di almeno tre anni) bottiglia di BCBS, o soprattutto delle sue varianti, ad oggi ancora ricercatissime, dal 2014 a scendere, potreste avere l’occasione di apprezzare il canto del cigno di un bellissimo pezzo di storia della birra artigianale americana. E allora il consiglio è uno soltanto: non ve la fate sfuggire. Altrimenti che geek sareste?