Ammostamento: tutte le tecniche per realizzarlo
L’ammostamento è una fase critica nel processo di produzione della birra. È quel passaggio in cui gli amidi contenuti nei cereali si trasformano in zuccheri fermentabili dal lievito, che a sua volta li convertirà in energia, alcol, anidride carbonica e decine di altre sostanze che contribuiscono al profilo organolettico della birra. La fase di ammostamento è quella che più frequentemente viene automatizzata, sia in birrificio che in casa, per evitare di dover passare del tempo davanti al pentolone mentre si può fare altro (pulire, in alternativa pulire, oppure sanitizzare, o ancora pulire). Eppure si potrebbe sfogare la propria creatività di birraio anche in questa fase: esistono tantissime tecniche di ammostamento che vanno oltre la semplice scelta degli step di temperatura. Alcune sono piuttosto scontate e rodate, altre riescono a conferire caratteristiche uniche alla birra. Altre ancora provengono da tradizioni ancestrali e possono sembrare assurde, quasi impossibili da realizzare. Salvo poi scoprire che in qualche remota località del mondo c’è ancora chi produce birra seguendo la tradizione senza aver consapevolezza scientifica di ciò che sta facendo. E la birra in qualche modo viene fuori, e magari assaggiandola scopriamo che è anche buona. Proviamo a ripercorrere alcune delle tante tecniche di ammostamento esistenti, con uno sguardo tecnico al presente e uno, più nostalgico, incredulo e a tratti estasiato, al passato.
Multistep
Metodo classico che lascia al birraio ampia libertà di scelta. Variando la temperatura della miscela acqua/grani si attivano diverse tipologie di enzimi, ciascuno con una specifica funzione. Il passaggio per ciascuno dei possibili step di temperatura (ce ne sono almeno cinque-sei) dipende dalla tipologia di birra che si vuole produrre e dai cereali che si utilizzano in ricetta. Ci sono enzimi che lavorano sulle proteine, utili se si impiegano malti poco modificati o cereali cosiddetti “crudi”, ovvero non maltati; altri riducono i beta-glucani, catene di amidi dalla consistenza gommosa (l’avena ne ha una discreta quantità) che possono creare problemi durante la filtrazione. Gli enzimi più “importanti”, ovvero lo step per cui si passa sempre, sono invece le amilasi, che convertono gli amidi dei malti in zuccheri fermentabili dal lievito. Ne esistono di due tipologie: la β-amilasi, che lavora a temperature più basse (tra i 55°C e i 68°C), produce zuccheri molto fermentabili, mentre la α-amilasi (range ottimale tra 67° e 72°C) solubilizza nel mosto zuccheri più complessi, meno fermentabili dal lievito. Un mosto con una discreta quantità di zuccheri complessi produce una birra caratterizzata da una maggiore dolcezza residua. Esistono anche altri step che attivano enzimi “di nicchia”, meno utilizzati nella produzione moderna. Ovviamente non esiste un confine netto oltre il quale un certo enzima smette immediatamente di lavorare: più o meno tutti gli enzimi lavorano anche a temperature più basse di quelle ideali, ma molto più lentamente; mentre si denaturano a temperature più alte, ovvero passano attraverso una modifica strutturale irreversibile che ne compromette l’attività. Anche questa denaturazione non è istantanea, ma è più veloce man mano che ci si allontana dalla parte alta del range di temperatura ideale per una determinata classe di enzimi. Durante l’ammostamento il birraio aumenta gradualmente la temperatura della miscela fino ad arrivare nel range desiderato, dove si effettua una sosta per lasciare agli enzimi il tempo di terminare il proprio lavoro. Per aumentare la temperatura, in genere si applica calore al tino in cui è contenuta la miscela, oppure si aggiunge acqua precedentemente riscaldata in un altro contenitore.
Multistep con decozione
Il metodo della decozione è nato, in parte, dall’esigenza di controllare le rampe di ammostamento. Prima dell’invenzione del termometro non era possibile misurare in modo preciso la temperatura della miscela di acqua e cereali. Per valutare se la temperatura raggiunta era quella desiderata, si immergeva una parte del corpo nel liquido (solitamente un dito o il gomito) per stimare la temperatura raggiunta. Con il tempo e con l’esperienza, alcuni birrai hanno notato che aggiungendo un volume noto di acqua portata a ebollizione a un volume, anch’esso noto, della miscela di ammostamento, si arrivava a una temperatura che dipendeva unicamente da quella della miscela di partenza e dai volumi in gioco, facilmente misurabili. Questo perché l’acqua aggiunta bolle sempre a 100°C (a meno di piccole differenze dovute all’altitudine). Il metodo della decozione prevede diversi step di temperatura, esattamente come il metodo multistep, ciascuno dei quali attiva una determinata tipologia di enzimi. Nella decozione però si aggiunge tutta l’acqua da subito, per poi prelevare una parte della miscela, inclusi i cereali, e portarla a bollitura in un contenitore a parte. Dopodiché si mescola nuovamente questa sorta di “porridge” alla miscela principale, producendo un aumento di temperatura che porta allo step successivo. Questo procedimento si può ripetere diverse volte (in genere tre, ma anche due o una soltanto), fino ad arrivare all’ultimo step con tutti gli amidi convertiti in zuccheri. A quel punto, come nel metodo multistep classico, si rimuovono i cereali esausti tramite filtrazione e si passa alla bollitura. Oltre a un controllo piuttosto preciso della temperatura, questo metodo facilita la solubilizzazione degli amidi presenti nei cereali, rendendoli maggiormente accessibili agli enzimi. Come è facilmente intuibile, nella miscela portata a bollitura gli enzimi si denaturano completamente mentre amidi e proteine si solubilizzano maggiormente grazie alla bollitura. Della conversione di questi amidi bolliti in zuccheri semplici, facilmente fermentabili dal lievito, si occuperanno gli enzimi rimasti nella miscela di partenza. Questo permette di aumentare la resa dell’ammostamento, in alcuni casi in modo significativo, specialmente se i cereali utilizzati sono poco lavorati a monte (in gergo tecnico si definiscono cereali “poco modificati”, ovvero maltati parzialmente o addirittura non maltati). Come effetto collaterale, la bollitura della miscela di acqua e cereali induce una reazione nota come “reazione di Maillard” che forma sostanze aromatiche che accentuano le note di cereale e soprattutto di panificato (crosta di pane) nella birra. Se un tempo (e in alcuni casi ancora oggi) questo procedimento era molto utilizzato, specialmente nella produzione di birre a bassa fermentazione con spiccato profilo maltato come Pilsner, Bock e Doppelbock, oggi è meno praticato per via dell’impegno aggiuntivo che esso richiede, sia in termini di tempo (l’ammostamento con tripla decozione può arrivare a durare 6 ore) che di strumentazione e lavoro fisico (occorre spostare parti di miscela da un contenitore all’altro). Essendo i malti odierni quasi sempre ben modificati e potendo scegliere tra una moltitudine di malti speciali per indirizzare il profilo organolettico della birra, molti birrai evitano di imbarcarsi in questo impegnativo procedimento. In molti tuttavia sostengono che non si arrivi allo stesso risultato, ma questa posizione è piuttosto dibattuta.
Single Infusion
Come il nome stesso suggerisce, il metodo a singola infusione altro non è che una variazione molto semplificata del metodo multistep. L’idea è semplice: se i malti sono ben modificati e se non si utilizzano in ricetta cereali crudi o particolarmente difficili da gestire (si pensi all’avena con i suoi beta-glucani), perché perdere tempo ad attraversare i vari step di temperatura per attivare le diverse tipologie di enzimi? È molto più semplice scaldare l’acqua fino a una precisa temperatura (in genere qualche grado in più rispetto alla temperatura che si vuole mantenere nello step di ammostamento), inserire i cereali, chiudere e isolare il tino di ammostamento e lasciare il tutto in pace per un’oretta. Gli enzimi α-amilasi e/o β-amilasi lavoreranno alla conversione degli amidi in zuccheri e il gioco è presto fatto. Questo approccio è tipico dei birrai inglesi, che storicamente impiegavano malti ben modificati grazie alla tecnologia locale, sempre all’avanguardia rispetto al resto del mondo. Inoltre, le ricette classiche degli stili inglesi (si pensi alle Bitter, alle Stout, alle English IPA, alle Mild, ma anche ai Barley Wine) raramente prevedevano cereali crudi: in questi casi un singolo step è più che sufficiente a gestire la conversione degli amidi in zuccheri. Probabilmente qualche eccezione esisteva (mi vengono in mente le Oatmeal Stout), ma nella maggior parte dei casi si ricorreva alla infusione singola praticata in grandi tini isolati esternamente con assi di legno, senza alcuna fonte di riscaldamento. L’acqua veniva scaldata in un tino a parte, poi trasferita nel tino di ammostamento dove incontrava i cereali, assestandosi alla temperatura voluta. Molti birrifici inglesi lavorano ancora con questa strumentazione seguendo la tecnica della singola infusione, e anche diversi piccoli birrifici italiani, specialmente se orientati principalmente alla produzione di stili anglosassoni.
Turbid mash
Iniziamo a deviare dai processi “standard” (anche se la già citata decozione non è propriamente un processo standard) per avvicinarci a pratiche di ammostamento piuttosto inusuali, per certi versi anche controintuitive. Il Turbid mash, come suggerisce il termine, si pone come obiettivo la produzione di un mosto torbido. Esattamente il contrario del processo di ammostamento standard, dove l’obiettivo è invece quello di portare in bollitura un mosto il più limpido possibile, per lasciarsi dietro eventuali amidi non convertiti, acidi grassi e una buona parte di polifenoli e proteine che potrebbero influire negativamente sulla stabilità della birra. Se nel processo standard si fa di tutto per rendere il mosto limpido, nel turbid mash si fa di tutto per renderlo torbido. Gli approcci possono variare, ma sostanzialmente si procede attraverso diversi step di temperatura che hanno l’obiettivo di convertire solo una parte degli amidi presenti nel mosto, tramite aggiunte successive di acqua quasi bollente che blocca parzialmente l’attività degli enzimi. La ricetta prevede in genere una buona dose di grano non maltato, impiegato proprio per aumentare la dose delle proteine e degli amidi che si solubilizzano nel mosto e che il birraio vuole far arrivare in fermentazione. Se applicassimo questo processo a una fermentazione standard, ci troveremmo a fine fermentazione con una buona dose di amidi residui che il lievito non è riuscito a convertire in alcol e anidride carbonica. La birra risulterebbe meno alcolica del previsto, un po’ troppo dolce e soprattutto instabile: acidi grassi, amidi e proteine con il passare del tempo tendono a produrre sostanze aromatiche non proprio piacevoli, oltre a costituire un nutrimento per lieviti “selvaggi” e batteri. Ed è proprio questo il punto: il Turbid mash si impiega per la produzione di birre a fermentazione spontanea (o comunque a fermentazione mista) dove lieviti di diverse tipologie e batteri agiscono in simbiosi e in successione nell’arco di mesi, a volte anche anni. Il mosto torbido porta con sé i nutrienti che verranno utilizzati in una seconda fase della fermentazione da lieviti selvaggi (spesso Brettanomyces) e batteri (spesso Pediococchi). Durante questa lenta azione di “pulizia”, questi organismi producono una serie di composti caratterizzanti per birre come Gueuze o Lambic: acidità, ma anche esteri fruttati (ananas, fragola, limone). Senza questa scorta di nutrienti a lento consumo (soprattutto amidi, ma anche proteine e acidi grassi) la fermentazione terminerebbe in poche settimane ad opera dei lieviti “standard”, lasciando una birra senza la profondità organolettica che siamo abituati a ritrovare in questa tipologia di birre e probabilmente anche con una scarsa acidità.
Overnight mashing
Il processo di produzione della birra, anche quello più semplice e immediato, richiede diverse ore. Tra riscaldamento dell’acqua, ammostamento, filtrazione, bollitura e raffreddamento se ne vanno almeno 3-4 ore, più spesso 8 ma a volte anche 10. Molti produttori casalinghi preferiscono spezzare il processo in due giornate, in modo da poter gestire la cotta durante il weekend senza dover per forza impegnare un’intera giornata dietro ai pentoloni. Il punto ragionevolmente più “sicuro” per interrompere il processo senza conseguenze disastrose sul prodotto finito è proprio l’ammostamento. In realtà il processo non si interrompe, anzi, con l’overnight mashing l’ammostamento si dilata su un’intera nottata. Una volta raggiunta la temperatura di saccarificazione (ovvero quella in cui lavorano gli enzimi amilasi che trasformano gli amidi in zuccheri), si chiude la pentola e la si dimentica fino al giorno dopo. Si tratta di una pratica “borderline” che può avere qualche controindicazione. In primis è noto che le amilasi, quando hanno a disposizione un tempo più lungo, tendono a produrre un mosto più fermentabile a parità di temperatura. Inoltre, l’estensione del tempo di ammostamento potrebbe lasciare tempo di azione agli altri microrganismi naturalmente presenti sui cereali: batteri lattici, enterobatteriacee, lieviti selvaggi, con conseguente produzione di aromi non proprio piacevoli (vomito, fecale, yoghurt) e acidità eccessiva, che poi ritroveremmo nella birra finita. Chi ha adottato questo procedimento giura e spergiura di non aver notato contaminazioni, il che è ragionevolmente possibile, specialmente se l’ammostamento viene fatto nella parte alta del range, intorno ai 68°-70°C: questo garantisce una sorta di pastorizzazione della miscela di ammostamento prima che la temperatura inizi nuovamente a calare durante la notte. Provare per credere.
Round-trip mash
Iniziamo ad andare verso l’assurdo, o meglio, oltre quella che è la solida evidenza scientifica. Questa ci racconta, correttamente, che gli enzimi si denaturano – ovvero smettono irreversibilmente di funzionare – se si supera il loro range ideale di temperatura. Esiste tuttavia un metodo di ammostamento particolare, definito da Gordon Strong “Round-trip mash” nel suo libro “Brewing Better Beer”, che segue un approccio quasi anarchico: si parte dall’alto del range di temperatura in cui lavorano gli enzimi amilasi (intorno ai 70-72°C) per poi scendere lentamente fino alla parte bassa del range (intorno ai 60°C) e risalire nuovamente alla temperatura iniziale. Round-trip sta appunto per “gita andata e ritorno”. Strong sostiene che questo approccio aumenti la fermentabilità del mosto. Il che è possibile, ma la mia convinzione è che questo avvenga per l’estensione del tempo di ammostamento e non tanto per il lavoro dei singoli enzimi, visto che le β-amilasi, che garantiscono alta fermentabilità, vengono velocemente denaturate a temperature troppo alte. Mentre è plausibile che le α-amilasi, attive durante tutto il round-trip, anche se più lentamente a temperatura più bassa, lavorino più a lungo fino a produrre una maggiore fermentabilità. Insomma, un approccio bizzarro e forse poco conosciuto, ma Gordon Strong non è l’unico a proporlo.
Boiled mash
Proseguiamo il viaggio tra gli ammostamenti estremi. Se il Round-trip mash poteva sembrare bizzarro, con il Boiled mash ci spostiamo quasi verso il paranormale. Questa particolare tecnica viene descritta nell’ultimo libro di Lars Marius Garshol, “Hystorical Brewing Techniques”, tra i racconti dei vari metodi produttivi della tradizione farmhouse del Nord Europa. Nemmeno Garshol credeva fosse possibile produrre birra con questo metodo di ammostamento, finché non si è trovato al fianco di Eila Tuominen durante una cotta di Sahti, particolarissima birra norvegese prodotta con metodi e strumentazione tradizionali. Il boiled mash inizia come un normale ammostamento: si mescolano cereali e acqua in un tino posizionato su fuoco di legna, che viene via via alimentato per aumentare la temperatura e passare attraverso diversi step, alcuni dei quali durano ore. Dopo diversi step e diverse ore, quando ormai probabilmente la conversione degli amidi in zuccheri è stata completata, il fuoco viene ravvivato. La temperatura della miscela di ammostamento inizia a salire, lentamente, ben oltre i classici 70-75°C. Eila, che non utilizza termometri, spiega a Garshol che il fuoco verrà spento non appena la “torta” al centro del tino, costituita da acqua e cereali addensati, collasserà su se stessa. Mentre la temperatura della miscela sale, iniziano a formarsi vere e proprie bolle che si aprono in superficie sparando cereali e acqua rovente in giro per la sala cottura (un vecchio stanzino nella casa di Eila). Garshol ha portato con sé un termometro: lo immerge nella miscela e, tra una bolla e l’altra, rileva una temperatura di 98°C sui bordi del tino e 91°C al centro. Effettivamente siamo quasi arrivati a bollitura. A un certo punto la torta al centro collassa e il fuoco viene spento. Il risciacquo delle trebbie, che altrimenti sarebbe impossibile per via della collosità raggiunta dall’impasto portato a bollitura, avviene in un altro contenitore con base molto larga e lungo, tipico del processo di produzione del Sahti. Nel paese di Eila si dice che se il mash non viene fatto bollire, la birra risulterà poi indigesta. Come dubitarne?
No mash
Sicuramente esistono birre “no boil”, anche dette “raw ales”, ovvero birre che saltano a piè pari la fase di bollitura. Ma birre “no mash” esistono? Può sembrare una domanda idiota, ma nasconde un dubbio che mi ha assillato per molto tempo. Si racconta, infatti, che le prime birre, prodotte migliaia di anni fa, siano nate da fermentazioni spontanee, accidentali, non volute. E senza dubbio è così. Ma se un processo del genere è facilmente riproducibile con fermentabili che apportano zuccheri semplici, come uva o miele, lo è molto di meno impiegando cereali, che contengono zuccheri complessi come gli amidi. Questi non sono fermentabili dalla maggior parte dei lieviti, e lo sono solo in parte (e molto lentamente) da alcune tipologie di batteri e lieviti selvaggi. La domanda nasce quindi spontanea: si riesce a produrre una birra (ovvero dell’alcol) partendo dai cereali senza passare per l’ammostamento? Una risposta l’ho trovata qualche tempo fa nel libro “Malts & Malting” di Briggs: “quando un malto chiaro viene macinato e messo in ammollo in acqua fredda, una piccola parte (tra il 16% e il 22%) di materia secca si solubilizza nell’acqua. Circa la metà di questa materia secca è fermentabile dal lievito”. Si può, quindi, tecnicamente, produrre birra senza passare per l’ammostamento, a patto che il cereale sia maltato. Se non fosse maltato, il processo di fermentazione sarebbe molto più lungo e nove volte su dieci ne uscirebbe una birra imbevibile. Ma questa è un’altra storia.