USA, è polemica sul monopolio della pinta americana
E’ il bicchiere per antonomasia d’Oltreoceano. Quello in cui tutti i discendenti dello Zio Sam bevono tutte le loro chiare, ambrate o scure. Ed è proprio questo il punto dolente su cui fan leva i detrattori di un monopolio che, sotto il profilo numerico ma a anche del costume, ha tratti assai prossimi a quelli dell’autocrazia zarista. Parliamo, lo si è capito, dello “shaker”, la pinta americana (silhouette svasata e fianchi rettilinei, senza bombatura alcuna) da 16 once Usa, ovvero circa 48 centilitri. Una sorta di “graal” del consumo brassicolo il cui “status dominante” non è stato mai messo, pubblicamente almeno, in discussione. A farlo – in un servizio pubblicato su citylab.com – è la voce di un personaggio conosciuto del palcoscenico “craft”: Sam Fritz, responsabile del settore birra al Pizza Paradiso di Washington, meta regolarmente votata in massa dagli appassionati come tappa imprescindibile nel District of Columbia (16 spine e 250 bottiglie, tra le altre credenziali). Ebbene, Frit sostiene che, con il livello di penetrazione raggiunto negli Stati Uniti da quello che possiamo definire “approccio artigianale”, è giunto il momento di proclamare la necessità di andare verso un servizio in cui si tenga conto della specificità dei prodotti e delle tipologie. Lo shaker, sostiene anche provocatoriamente, non è certo “la miglior cosa capitata ad Ales, Stout e compagnia”. Una tesi che, magari con tinte diverse, arruola anche altri opinion-makers, come Garrett Oliver (brewmaster della Brooklyn Brewery) o come Michael Lewis, professore emerito in scienze del brassaggio alla University of California, di Davis; una tesi che, dai parte dei suoi sostenitori, viene argomentata con una ricostruzione interessante.
Punto di partenza è che la pinta americana nasce come versione in vetro (ridotta alla metà, nelle dimensioni) dello shaker da cocktail: insomma un “utensile” per mixare bevande. Ma diventa strumento principe da sorseggio nel dopoguerra, quando, avendo fatto il proibizionismo strage dei piccoli beer-producers, i grandi gruppi (Schlitz, Anheuser-Busch, Coors e via dicendo) egemonizzano il mercato inondandolo di prodotti di dubbia qualità, per tracannare i quali non c’era certo bisogno di “glasses” dal design troppo particolare, ambizioso o impegnativo: magari pure fragili e costosi. Meglio un modello che avesse le virtù della praticità: economicità, durevolezza, stabilità sul piano d’appoggio, facilità a essere impilato; ecco le armi con cui lo shaker eclissò i predecessori: coppe e “mugs” tra l’altro normalmente più piccoli rispetto alla misura delle 16 once. Ora, però – è la posizione degli avversari dello “shaker a tutti i costi” – il quadro è non solo cambiato: si è ribaltato. E di fronte all’elevata preparazione media dei consumatori rispetto alla conoscenza delle tipologie brassicole e della loro specificità, non c’è ragione di permanere in questa consuetudine “banalizzante”. Lewis ha affermato, come passo transitorio, l’auspicabilità di un ritorno, intanto, alla pinta britannica (57 centilitri circa); Oliver propugna direttamente i calici a tulipano e le altre forme “evolute”: vedendo nell’obsoleta supremazia dello shaker uno dei motivi per cui negli Usa si continua a pensare al vino in un modo e alla birra in un altro.