La Orval incontra le trofie con pesto genovese
Entriamo in un terreno minatissimo. Il pesto (alla genovese? alla ligure? mah!) è una di quelle preparazioni che pare non si possano non solo preparare, ma neanche assaggiare, che dico, neppure pensare, superato il passo del Velino. Questo perché l’ingrediente di base, il basilico, deve essere assolutamente quello a foglie piccolissime proveniente dalle serre di Prà, sulle prime alture di Genova. Tale varietà ha la caratteristica di non avere traccia delle note mentolate presenti in tipologie a foglia più larga, che rovinerebbero inesorabilmente l’aroma della salsa.
Veniamo all’olio. Scordate le note vegetali di foglia di carciofo di quelli toscani ed umbri, gli accenti piccanti dei pugliesi o il fruttato, quasi l’agrumato, di un Nocellara del Belice. Assolutamente solo olio extra vergine della Riviera Ligure, con la caratteristica chiusura aromatica di pinolo. Qualche grano di sale grosso, l’imprescindibile aglio di Vessalico (uno spicchio ogni trenta foglioline), una manciata di preziosi pinoli e, unica concessione extraterritoriale (nessuno è autarchico fino in fondo), l’aggiunta dei grandi formaggi da grattugia italiani: il Parmigiano Reggiano ed il Pecorino Romano. Tutto questo dovreste assemblarlo, con la pazienza di una massaia di Ponente, nel mortaio di marmo, avendo cura di far uscire il prezioso nettare aromatico contenuto nel basilico non per battitura ma per sfregamento. Operazione che vi potrete risparmiare, agevolando il lavoro e limitando la fatica, grazie all’uso di un comune frullatore ad immersione, attrezzo sdoganato persino in Casa Dabove (fate solo attenzione a non scaldare troppo il tutto!).
L’abbinamento proposto a questo piatto della sua personalissima tradizione culinaria è belga, con una delle più famose birre Trappiste: la mitica Orval. Anche qui, con la solita pedanteria, facendo qualche raccomandazione. Questa Trappist Ale, di poco più di sei gradi, caratterizzata da un generoso utilizzo di luppoli (Hallertau per l’amaro e Styrian Goldings per l’aroma, anche in dry hopping) è marchiata da note selvatiche, quasi animali, dovute all’inoculo di brettanomiceti nella seconda fase di fermentazione. Questi lieviti “selvaggi” arricchiscono sempre di più la birra durante la fase di maturazione nella vostra cantina. Abbiate dunque la pazienza (che so, magari murando le bottiglie!) di aspettare almeno un anno, meglio ancora due, dalla data di imbottigliamento indicata sul collo dell’originale bottiglia. Solo così sarete sicuri di avere quei sentori che si rincorreranno alla perfezione con la rustica balsamicità del pesto, grazie agli accenni di aglio e Pecorino. In bocca la leggera acidità dell’Orval, aiutata da una sempre generosa carbonazione, ripulirà alla perfezione la grassezza, la quasi untuosità del piatto. Un matrimonio da consumare se possibile in riva al bellissimo mare ligure, magari aspettando un pesce che, come il leggendario episodio richiamato sull’etichetta della Orval con protagonisti una trota e la Contessa Matilde di Canossa, con un balzo ci consegni un anello miracoloso.
kk
Articolo tratto da Fermento Birra Magazine n.4