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Stili da riscoprire: Australian Sparkling Ale

Mentre appare ancora un cantiere in corso d’opera il percorso avviato in Oceania lungo i binari tracciati dall’utilizzo delle numerose varietà di luppolo tipiche dell’area (e con la prospettiva della possibile codifica formale delle Pacific Pale Ales o Ipa, sulla scia di quanto accaduto con le versioni American), allo stato dell’arte, l’unica stile birrario ufficialmente riconosciuto come autoctono che si possa vantare in Australia è rappresentato dalla Sparkling Ale.

Si tratta di un genere ormai confinato in una riserva: quella costituita – oltre che da alcune interpretazioni uscite di recente – dagli stabilimenti della Coopers, a Recency Park (suburbio settentrionale della città di Adelaide), nelle cui sale cottura la tipologia nazionale viene sfornata fin dall’avvio degli impianti (nel 1862) e prosegue tutt’oggi, configurandosi come caso unico, rispetto al resto del Paese, dove tutte le precedenti esperienze storiche di produzione continuativa sono ormai e da tempo passate alla dimensione del ricordo.

Ma come nasce e cos’è – al momento della sua comparsa – la Sparking Ale? A entrambe le domande, la risposta è le medesima. Una contromossa, da parte dei brewers australiani, per rispondere all’aggressiva concorrenza da parte dei competitori britannici, con le loro Pale Ales. Diversamente infatti da quelle che erano state le aspettative, durante la fase di decollo del tessuto brassicolo-imprenditoriale nella terra dei canguri (tra Settecento e Ottocento), le condizioni operative qui vigenti (in specie la mancanza di un’adeguata diffusione di efficaci strumenti per la refrigerazione artificiale) avevano fatto sì che i risultati organolettici si rivelassero mediamente inferiori, rispetto appunto a quelli dei modelli della madrepatria, ai quali pure ci si ispirava.

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La reazione dei coloni non si fece aspettare e allora – siamo nel XIX secolo – venne creata una birra più fresca: più chiara, mediamente tra il dorato e l’ambrato leggero (quindi gustolfattivamente spostata verso il cereale nature o appena cotto, anziché verso sensazioni tostate); più secche, grazie all’azione attenuante dei ceppi di lievito sviluppatisi localmente, su colture inglesi; più vivaci in virtù della maggiore carbonazione, ottenuta nel condizionamento, sia in fusto, sia soprattutto in bottiglia (la quale, tra l’altro, riusciva utile a limitare anche possibili minacce di deterioramento dovute alla microflora o al tempo). Un identikit sensoriale che piacque: la Australian Sparkling Ale – così battezzata proprio a fronte della spigliata effervescenza – garantiva comunque levigatezza palatale, in quanto servita di norma mescendo anche i lieviti residui (ancor oggi la si somministra così, di preferenza); e dunque si avviò lungo un cammino autonomo: un cammino destinato a farsi difficoltoso e poi quasi ad esaurirsi, come abbiamo detto, a partire dai primi anni del Novecento, quando anche questa particolare progenie ad alta fermentazione dovette alzare bandiera bianca al cospetto della trionfale avanzata delle Lager. Interessante anche l’evoluzione dello stile in ordine all’impiego di luppolo: tradizionalmente  preparata con coni delle varietà Cluster (americano) e Goldings (inglese), è passata – a metà anni Sessanta del Novecento – a un protocollo nel quale si prevedono gettate di indigeno Pride of Ringwood.