La birra al tempo dei raters: RateBeer e Untappd influenzano il mercato?
Qualche giorno fa RateBeer, tra i più noti siti di condivisione di recensioni birrarie, è balzato alle cronache per la notizia di una sua acquisizione, si parla di una quota di minoranza, da parte del colosso Ab-InBev. Ne approfittiamo per parlare dell’importanza e dell’influenza che siti e applicazioni di questo tipo esercitano nel settore birra.
Chi a vario titolo fa parte del mondo della birra, appassionato o professionista che sia, non può non averne mai sentito parlare. Può darsi che non ne sia un fruitore, che non partecipi o non segua proprio del tutto siti e app di rating birrario, ma ignorarne l’esistenza è piuttosto difficile a meno di non vivere su un altro pianeta. Solo chi invece si fosse affacciato a questo mondo da pochissimo o lo facesse saltuariamente potrebbe non aver mai sentito nominare le principali piattaforme per recensire e votare le birre presenti sul mercato e le comunità ad essi collegate. Tutti quanti conoscono Tripadvisor e qualcosa di molto simile esiste per la birra, strumenti di democrazia “dal basso” che condividono molti dei pregi e dei numerosi difetti del più famoso sito per valutare alberghi e ristoranti.
Fino a qualche anno fa i siti a cui affidare i propri giudizi e i propri voti erano fondamentalmente due, Ratebeer e BeerAdvocate, nati entrambi prima dell’esplosione del mobile web e dei social network e quindi costruiti pensando all’utilizzo via desktop PC. La modalità era ed è piuttosto semplice, sebbene non banale: ogni birra viene recensita con una sorta di mini scheda di degustazione che va a comporre il punteggio finale, a cui è buona creanza aggiungere un commento. Entrambi i siti sono sempre stati lungamente frequentati e di successo, ma almeno alle nostre latitudini il punto di riferimento è sempre stato Ratebeer. La ragione probabilmente sta nel fatto che fra le due piattaforme, sostanzialmente identiche circa le modalità di voto, Ratebeer è sempre stata percepita come quella più affine allo spirito degli appassionati più modaioli, fanatici se vogliamo, in una parola dei beer geek. Il merito, o la colpa se vogliamo, sta probabilmente in una interfaccia un po’ più snella e gradevole e soprattutto nell’assegnazione annuale di vari premi basati sui voti degli utenti, suddivisi in varie categorie generali, geografiche, per stile, e che si estendono anche ai locali che vendono e servono birra, che possono a loro volta essere recensiti. BeerAdvocate d’altro canto non è solo un sito di rating, ma è anche un magazine e le recensioni sono solo una parte dei contenuti presenti.
L’influenza di queste piattaforme sul mercato della birra artigianale è indubbiamente cresciuta nel corso degli anni, in varie forme dirette e indirette. Naturalmente stiamo parlando di una quota significativa ma residuale di questo mercato, la maggior parte dei bevitori ignora e si disinteressa di queste classifiche, eppure questa influenza ha modo di manifestarsi in diversi modi. In Italia probabilmente si vede poco, perché gli utenti di questi siti non sono molti e di conseguenza sono meno seguiti dal lato commerciale della birra artigianale, ma in altri paesi, primi fra tutti gli Stati Uniti, il fenomeno è molto più evidente.
Chi è stato in qualche rivendita di alcolici specializzata in birra negli States potrà aver notato per diverse birre, le più prestigiose, accanto al cartellino del prezzo il rating assegnato da questi siti. Un segnale che per un segmento di mercato questi numeri contano eccome, un segmento ad alto ricarico e profittabilità e che, grazie all’hype che questi numeri generano, produce pubblicità gratuita e può valorizzare molto il marchio di un birrificio. Per due prodotti di pari qualità entrare nelle grazie dei rater può essere davvero cruciale per il successo commerciale e la crescita di un birrificio.
In Italia queste classifiche hanno meno presa e condizionamento sul pubblico, abituato in generale ad una fruizione della birra meno ossessiva e ossessionata rispetto agli States, eppure l’influenza sul mercato esiste comunque in via indiretta. Innanzitutto, i rating sono uno strumento gratuito che i birrifici possono utilizzare per valutare il polso del mercato rispetto alle proprie produzioni, sia a livello nazionale, sebbene in maniera ridotta, che all’estero. Possono valutare il gradimento del proprio prodotto, l’apprezzamento e la diffusione del proprio marchio. Di sicuro non è il discrimine per decidere l’orientamento della gamma produttiva, ma fa parte di quegli input che possono orientarla. C’è poi un altro punto, molto più saliente: l’export. Gli importatori e locali stranieri, lo si è detto, sono molto più sensibili a queste classifiche, tanto quanto i bevitori stranieri disposti a rincorrere – e a spendere per – produzioni “esotiche” provenienti da birrifici nuovi e sconosciuti ma di fama. Stare in cima a queste classifiche, come birrificio o con alcune delle proprie etichette, è sicuramente di grande aiuto per entrare nei portafogli dei principali importatori stranieri e nei locali esteri più prestigiosi dove queste classifiche contano. Contano al punto che un birraio italiano, fra il serio e il faceto, si lamentava della scarsa partecipazione degli italiani a questi siti di rating, in particolare a RateBeer, dove un numero maggiore di voti positivi alle birre italiane, spesso eccellenti quanto più blasonate referenze straniere, potrebbero aiutare l’export dell’intero comparto artigianale italiano. O più probabilmente dei birrifici più alla moda che puntano proprio al mercato dei beer geek…
Avere un rating alto in queste classifiche è spesso anche il lasciapassare per l’ingresso ai festival più prestigiosi. Negli ultimi anni i festival birrari si sono moltiplicati, con nuove formule, e quelli più ambiti presentano una selezione sempre più accurata dei partecipanti in modo da fungere da forte richiamo per gli appassionati e da vetrina prestigiosa per i birrifici che riescono ad accedervi. Chi serve le proprie birre negli eventi più famosi a livello internazionale, ad esempio quelli organizzati negli ultimi anni da Mikkeller, non lo fa solamente per vendere la propria birra ma anche per cogliere l’occasione di portare il proprio marchio in un club esclusivo nel quale un certo mercato riconosce, con tutti i limiti del caso, l’eccellenza e la frontiera dell’innovazione. Il meccanismo che porta a guadagnarsi una autorevolezza tale da essere invitati a queste manifestazioni passa da un insieme di fattori qualitativi, relazionali, di comunicazione e di scelte produttive affatto banale. Avere ottimi riscontri sui siti di rating è un biglietto da visita di non poco conto.
I limiti di un mercato “drogato” da questi numeri sono ben noti a chi è dentro questi meccanismi. Innanzitutto va fatta qualche considerazione sul pubblico di questi siti, sull’utente medio. Chi si preoccupa di recensire ogni birra che beve, anzi chi si preoccupa di bere il più possibile per avere il maggior numero di recensioni – è una gara pure quella – è molto spesso il genere di bevitore più modaiolo, che si focalizza o comunque apprezza soprattutto gli stili di birra con intensità gustativa più elevata e appariscente, vale a dire birre come le American IPA e le Imperial Stout insieme a tutto il mondo della produzioni acide e funky in generale e senza nemmeno trascurare quelle prodotte con la frutta e gli ingredienti più strani e originali molto alla moda negli ultimi tempi. Il risultato di tutto questo sono classifiche dominate esclusivamente da birroni esuberanti ed alcolici o prodotti di nicchia particolari e spesso di difficile reperibilità e queste referenze paiono oramai rappresentare l’unica eccellenza birraria possibile secondo il mondo dei rater. Ne fanno le spese gli stili più classici e “tranquilli” che scomparendo dei riflettori in qualche modo hanno meno rilievo anche nel circuito del mercato e dei festival più alla moda. Se le Lager chiare e leggere hanno comunque un loro mercato ampio e inossidabile che prescinde dai meccanismi dell’hype, per altri stili importanti ma fuori dagli obbiettivi dei rater è abbastanza evidente un certo declino. Il mondo delle birre del Belgio per esempio, facendo salve alcune eccezioni virtuose, è stato vittima di un evidente e crescente disinteresse negli ultimi anni a favore di altre tipologie citate sopra. Sia chiaro, questi strumenti e le community che si creano attorno non rappresentano l’intero mercato della birra artigianale e da sole non sono in grado di condizionarlo. Però descrivono una situazione che spesso poi si ritrova nelle discussioni di tutti i giorni: si parla e si bevono sempre più spesso solo prodotti luppolati, i publican strutturano la loro offerta su questi prodotti, i birrifici in cerca di visibilità si concentrano specialmente su birre che, proprio per questi meccanismi, hanno maggiori probabilità di fare parlare di sé. Finisce così che si fatica a trovare una Belgian Blonde davvero ben fatta mentre tutti sono concentrati sul barrel aging, sulle luppolature o sulle moderne New England IPA, sui Brettanomyces e sulle birre acide. Certo, è pur sempre il consumatore in ultima istanza che predilige certe birre a discapito di altre. E avere qualche produttore più accurato nel produrre Belgian Blonde aiuterebbe anche a recuperare interesse sul mercato, al di là del mondo dei rater.
Ci sono poi casi di birrifici che intenzionalmente spingono e foraggiano il mondo dei “top rater” nei modi più disparati, spedendo loro le birre e “comprandone” in qualche modo i favori. Gli influencer, come in ogni ambito, esistono anche nel mondo della birra e funzionano, perché fanno scalare classifiche e in ultima istanza vendere più birra. Sono casi residuali, ma i maramaldi ci sono.
Sull’influenza di questi siti di rating ne abbiamo discusso, ma quale è la loro reale attendibilità? Parziale, molto parziale. Sarebbe presuntuoso ritenere che tutti coloro che si dedicano a queste votazioni siano degli incompetenti ma anche ingenuo ritenere che la maggioranza degli utenti, nonostante la passione e l’indubbio allenamento, abbia un palato davvero raffinato ed evoluto. Forse è proprio l’eccesso di passione e un allenamento che si trasforma in periodiche maratone a rappresentare uno dei principali limiti. Per molti utenti è naturale ad esempio, quando si partecipa a festival o incontri di degustazione, pubblicare diverse decine di votazioni in un solo giorno. È facile intuire come, assaggio dopo assaggio, l’attendibilità del giudizio vada a scemare. Le classifiche finali ovviamente si basano sul concetto di media e ci sono alcune accortezze, sebbene non particolarmente sofisticate, nel pesare i differenti contributi, quindi una parte del “rumore” dovrebbe elidersi, ma il problema principale sta nella natura stessa della comunità dei rater, nel campione da cui si ricavano le classifiche detto in maniera più scientifica. I rater, lo si è detto in precedenza, in maggioranza hanno connotati precisi in termini di collocazione geografica e gusti birrari, quindi sono espressione di un contesto molto specifico. Detto altrimenti, hanno sicuramente molto più senso le classifiche di IPA o Imperial Stout, le passioni principali della maggioranza dei rater, rispetto a quelle di Pils o Belgian Blonde. Allo stesso modo i confronti fra stili lasciano il tempo che trovano. Un altro limite enorme di questi siti è la bulimia che porta i rater a cercare in continuazione nuove birre da recensire per incrementare il numero delle proprie recensioni. Il problema è che le birre cambiano, di cotta in cotta a volte, e nel tempo in generale, ma nessuno, una volta inserita la propria votazione, ci torna mai più sopra. Il risultato è che moltissimi rater si trovano ad avere un numero enorme di recensioni riguardo a birre bevute anni prima e completamente diverse nel presente senza che se ne preoccupino, tantomeno è prevista una “pesatura temporale” del voto che rispecchi eventuali cambi produttivi o qualitativi più recenti. È molto rara quindi la possibilità di redenzione nel caso in cui ci si sia imbattuti in una cotta meno fortunata o in una bottiglia conservata male.
Ratebeer e BeerAdvocate sono piattaforme basate su desktop PC, ma il futuro come tutti sanno è il mobile, tecnologia che questi siti non hanno saputo cogliere appieno e per tempo. Oggi nel mondo dei rater c’è un nuovo astro nascente e si chiama Untappd: basato sull’utilizzo via smartphone, è in qualche modo la versione semplificata e brutale dei precedenti inserita in un contesto di social network. La votazione è ridotta a una scala da zero a cinque pallini, distanziati da un quarto di punto, e lo spazio per il commento è vincolato da un lunghezza massima di 140 caratteri in pieno stile Twitter. Per capirci, il passaggio nella scala di punteggio dal frazionamento con mezzo pallino a quello con un quarto è stata vista come una innovazione di un certo conto. In questo modo votare diventa più immediato e leggero, non c’è la necessità di un PC o di prendere appunti elaborati da riportare successivamente e il gesto diventa facile e naturale. Il voto perde quella responsabilizzazione e quel rituale più “professionale” imposto dalle piattaforme precedenti e assume in molti casi la forma di un “block notes social”, in cui l’ambizione è limitata ad appuntarsi quanto si è bevuto condividendolo con gli amici, senza la reale intenzione di sentenziare circa la bontà di un prodotto o scalare le vette in quanto a numero di rating. Su Untappd, inoltre, è piuttosto comune recensire nuovamente birre che si sono bevute in passato, al contrario di Ratebeer e BeerAdvocate. Anche da questa nuova piattaforma, sempre più di moda e che rappresenta il futuro del rating birrario, sono state ricavate un insieme di classifiche. L’enfasi e la visibilità sono, quantomeno per il momento, sicuramente inferiori, ma sono seguite con non meno interesse da birrai, professionisti e importatori. Le considerazioni precedenti si possono quindi estendere anche per Untappd. Difficile dire quali siano i pregi e i difetti di questa piattaforma di rating social più orizzontale e “primitiva”: la destrutturazione della scheda di voto deresponsabilizza l’utente in qualche modo, non c’è dubbio, ma allo stesso tempo estende la platea oltre la comunità autoreferenziale e un po’ datata dei trader “duri e puri” verso nuovi tipi di appassionati. Anche da un punto di vista generazionale è chiaro che uno strumento al passo coi tempi, basato sulla comunicazione mobile, è qualcosa che incontra le esigenze dei più giovani, nati con in mano uno smartphone e non una tastiera, ed è in grado di attrarli. Una fascia di consumatori che sicuramente fa gola a tutto il mondo professionale della birra artigianale.
Il birraio italiano (Bruno Carilli) è mooooolto serio quando si lamenta dello scarso interesse degli appassionati italiani nei confronti di RateBeer :D
Una bella riflessione. Specialmente nella parte finale dell’articolo, dove si dice che l’attendibilità di questi rating è bassa, mi viene inevitabilmente in mente un’analogia con le “famose” stelline che erano presenti su alcuni siti internet per indicare il proprio gradimento… Primi fra tutti Youtube e Netflix.
Quando le hanno in favore dei pollici dritti/rovesci tutti hanno inneggiato alla “contaminazione da facebook” ma la realtà è che hanno fatto più o meno lo stesso ragionamento che qui facciamo con Ratebeer.
Detto ciò e premesso che non mi ritengo assolutamente una persona in grado di dare grandi giudizi, ma un semplice e comune appassionato (fra l’altro da poco), è anche vero che tutti devono (e hanno piacere) a dire la propria a tale proposito e con questi sistemi possiamo, come dire, “dirlo al mondo”. Inoltre Ratebeer ha avuto successo -secondo me- anche perchè lo fa in modo molto guidato.
Se anche queste applicazioni assumono la connotazione di “bloc notes” come detto nell’articolo, esattamente che male ci sarebbe? Queste app/siti non sono niente di ufficiale in realtà e la gente che ci scrive (come detto nell’articolo) non è certo grande esperta, è stato il mercato ad attribuirgli troppa importanza rispetto a quello che è in realtà. Tastare il polso del mercato va bene, ma con certi strumenti prima di guardare i numeri bisognerebbe forse guardare i dati che compongono quei numeri.