Raccontare una birra non è solo una questione di stile
Negli ultimi dieci anni, in Italia, il numero di birrifici artigianali è aumentato vertiginosamente. Basta osservare i dati di crescita per capire quanto il bacino di utenza della birra artigianale italiana si sia allargato, andando via via ad interessare sempre nuove persone. Non è, tuttavia, per nulla scontato che si tratti sempre di fruitori interessati a questo mondo e, quindi, stimolati a capire, ad assaggiare, a “studiare” (come direbbe Kuaska). Non tutti si “innamorano”, tanti semplicemente si trovano a sorseggiare sporadicamente – mi verrebbe da dire quasi “per caso” – la birra artigianale, che noi appassionati sappiamo bene essere complessa, caratteriale, spesso decisamente originale e non di rado piuttosto estrema. Che si tratti di una semplice blonde ale o di una complessa imperial stout, comunque le nostre birre hanno (quasi) sempre una personalità ben precisa, un carattere che non è tutte le volte semplice da raccontare, soprattutto se l’interlocutore non ha le basi “culturali”, la dimestichezza col “vocabolario” e con il gergo che normalmente si utilizzano in ambito birrario. Questo deve aprire una riflessione su come raccontare una birra, spiegarla, farla capire ai potenziali bevitori, che saranno strategici, per il futuro di tutta la birra artigianale.
Fin qui ci si è sostanzialmente appoggiati allo stile di riferimento, che certamente può aiutare molto, ma che ha, dal mio punto di vista, diversi limiti. Intanto sono davvero poche le persone che conoscono a fondo gli stili, gli appassionati che sanno distinguere tra le American Pale Ale e le American IPA. Avere dimestichezza con tutti gli stili significa aver “studiato” molto. Questo approccio nasconde un grande rischio: quello di farsi guidare principalmente (per non dire solo) dai parametri stilistici, con il pericolo, concentrandosi sul dettaglio, di perdere di vista la complessità del panorama, di non cogliere la birra nella sua essenza. La coerenza stilistica può essere importante, ma non deve essere fondamentale (a meno che non si sia nella giuria di un concorso per stili, evidentemente). Frasi come “è una buonissima birra, davvero ben fatta, però sull’etichetta c’è scritto Saison, questa non è stilisticamente aderente, quindi la boccio” sono sintomo di un atteggiamento che ritengo profondamente inadeguato a descrivere la scena italiana, così vivace e innovativa. I nostri birrai spesso producono birre non canoniche, magari “ispirate” a stili classici, ma che fortunatamente quasi sempre vanno ben oltre il canone di partenza. Se pensassimo alla Tipopils o alla Xyauyù (tanto per fare due esempi diametralmente opposti) in termini di aderenza stilistica, nessuna delle due sarebbe da promuovere: La Tipopils non è una pils e la Xyauyù non è un barleywine. Questo mi fa pensare che lo stile, da solo, non sia sufficiente, per raccontare le birre. Non soltanto per il rischio “accademico” dei pochi fanatici del BJCP, ma soprattutto perché sono poche le persone che, gli stili, li conoscono davvero. Sono molti di più, invece, i bevitori che non hanno un’idea precisa di cosa siano; e la loro indicazione può legittimamente non essere di molto aiuto. Ritengo comunque molto utile che i birrai continuino a scrivere la tipologia in etichetta, ma non credo che questo possa essere sufficiente per raccontare la complessità di una birra.
Spesso, inoltre, chi si avvicina al mondo della birra artigianale è convinto di conoscere gli stili, di avere le idee abbastanza chiare, ma i fatti dimostrano che non è esattamente così. Ci sono alcuni tipologie, come le inflazionate Ipa, che talvolta vengono ordinate per il solo fatto di avere un nome conosciuto e già sentito. Non è poi sempre che le persone sappiano riconoscere i gusti (ad esempio spesso l’amaro viene confuso con l’astringenza – che gusto non è – o in qualche caso addirittura con l’acido); e i profani vanno talvolta accompagnati in un percorso di conoscenza delle proprie percezioni. Ma una volta fatto questo, descrivere una birra in base alle sue caratteristiche gustative è forse la strada giusta per comunicarla anche ai non addetti ai lavori. Il Moeder Lambic di Bruxelles suddivide le sue (46) spine in base al colore, alla forza alcolica e al livello di amaro. Sulla grande lavagna raggruppa le birre in bionde leggere amare, bionde leggere dolci, bionde forti amare, bionde forti dolci, ambrate-scure amare, ambrate-scure dolci, fermentazioni spontanee. Mi pare una buona idea, anche se così facendo inevitabilmente si taglia con l’accetta e i gruppi risultano molto ampi e decisamente eterogenei.
Però è un inizio. Che forse andrebbe accoppiato con una breve (ma veramente breve) descrizione della birra. Bisogna essere estremamente sintetici (l’ottimo sarebbe usare due, tre parole al massimo), ma si deve riuscire a dare un’idea delle sensazioni, delle emozioni che ogni birra (buona) sa trasmettere. È difficile: perché, c’è sempre il rischio di essere leziosi, di usare termini troppo complessi o poco evocativi per un non appassionato (ad esempio il fatto che ci sia il Sorachi Ace può non dire assolutamente nulla, a tante persone); e perché per essere efficaci bisogna conoscere bene la birra, averla “capita” fino in fondo. Credo però che sia uno sforzo necessario, che sia urgente trovare modalità più semplici (ma non per questo meno corrette e precise) per raccontare la grande complessità o il semplice piacere che si nasconde dentro le birre.