I postulati di Kuaska (parte I)
Quando cominciai quasi inconsapevolmente, circa quarant’anni fa, ad occuparmi più o meno seriamente di birre, assetato di conoscenze e nutrito di sola e pura passione, attingevo a fonti, per lo più straniere, rappresentate principalmente dai libri di Michael Jackson e Peter Crombeq e non solo, oltre ai racconti dei vecchietti locali da me stanati nelle mie incessanti, per me più che decisive, leggendarie esperienze “on the road” tra i sentieri del Pajottenland. Imparavo velocemente, ben conscio però di dover prima interiorizzare e metabolizzare informazioni da fonti esterne per poi poter elaborare, ragionare e produrre cose tutte mie, che si fossero potute definire “farina del mio sacco”.
Non a caso, anzi per onestà intellettuale, non firmai il testo che scrissi sulla storia della birra (testo copiato e incollato un po’ ovunque nella rete) ma specificai come fosse “a cura di Lorenzo Dabove in arte Kuaska”. Dopo qualche tempo però mi resi conto, specie durante le mie serate di degustazione come divulgatore o nelle lezioni dei corsi come docente, di esporre idee, opinioni e commenti assolutamente personali ed originali, che furono poi argutamente definiti dal caro amico e discepolo Marco Tripisciano, creatore e fondatore dello straordinario sito mondobirra.org, i “postulati di Kuaska”.
Lasciando per ultimo il mio marchio di fabbrica col quale inizio ogni mio evento, vi snocciolerò quelli più significativi che sono diventati veri e propri “cult”, so purtroppo di non esagerare, per le migliaia di appassionati che ho convertito (qualcuno, lo ammetto, plagiato) nel corso di questi ultimi, esaltanti anni di crescita, affermazione e consolidamento della cultura birraria nel nostro paese.
Ogni postulato viene affermato in base ad un aggancio con l’argomento trattato. Ad esempio quando devo far capire come il colore di una birra non abbia alcun riferimento col grado alcolico cito la classica frase “mio marito beve la Guinness, io no perché è scura e quindi è forte” che regala un piatto d’argento al mio ormai celebre postulato “abbiamo innocenti birre chiare di 12 gradi e minacciose birre scure di 4 gradi”.
Quando voglio sottolineare i pro e i contro dell’essere italiano per un degustatore, parto dai contro e mestamente dico: “a livello legislativo ed istituzionale siamo in Mozambico”, mentre per i pro, entusiasticamente dico: “nell’annusare una birra caratterizzata dall’impiego di luppoli aromatici americani, i miei colleghi stranieri subito definiscono l’aroma con un bel “citrus fruit” cioè agrume. Ma voi avete mai detto a qualcuno: passami un agrume”? Noi abbiamo la Sicilia, la Calabria ecc. e quindi sappiamo subito distinguere l’aroma di arancia, mandarino, pompelmo, mentre gli unici che beccano subito il bergamotto sono gli inglesi che ogni giorno si fanno un paio di tazze di tè Earl Grey”.
Altro postulato basato sulla mia fortuna di essere un degustatore italiano afferma: “mia madre dedica il 90% delle sue parole alla cucina e al cibo, mentre quelle dei miei colleghi inglesi parlano solo di giardinaggio, hobby indubbiamente interessante, ma stasera a cena preferireste un piatto di spaghetti alla carbonara o dei bulbi di tulipano?”.
Per stigmatizzare il fatto di come da noi sia malauguratamente e sciaguratamente abituale affidare il governo dei vari settori a persone incompetenti provenienti da tutt’altri campi dico “le leggi sulle birre sono partorite da chi non ha mai fatto una cotta, il calcio è in mano a gente che non ha mai tirato un calcio a un pallone, i preti tengono i corsi prematrimoniali ma non si sposano e gli orari dei treni dei pendolari sono cervelloticamente stabiliti da chi viaggia in auto blu”.
Tema a me caro e fonte di alcuni dei miei più aggressivi postulati è senza dubbio quello della contrapposizione tra e birre industriali e quelle artigianali. Il più noto recita: “L’industria è il nostro nemico e va combattuto con intelligenza individuando i suoi punti deboli e quelli forti. Punto debole principale: le birre non sanno di niente, quindi a noi basta farle che sappiano di qualcosa di buono (belle le definizioni inglesi “tasteless” per le loro e “tasty” per le nostre). Ma il punto forte è quello della riconducibilità del prodotto. Se sei in vacanza a Sharm El Sheikh con la fidanzata, spaparanzato sotto un ombrellone e vuoi berti la tua mass market lager che ti bevi a casa, te la prendi al bar sulla spiaggia e te la bevi trovandola tale e quale perché il cadavere è partito dal paese di origine e arrivato qui come se niente fosse. Cosa difficilissima da ottenere con un prodotto artigianale, non pastorizzato, spesso trasportato in modo indecente o vittima di shock termici da stoccaggi da incubo notturno. Sarà quindi molto importante per il birraio artigianale cercare la maggior riconducibilità possibile, senza mai trascurare un gap fisiologico (come variazioni di stato e degli ingredienti) che tuttavia deve essere molto limitato. Una cosa che non sopporto è quando mi si dice: “dovevi essere in quel brewpub mercoledì scorso, la weizen era eccezionale mentre stasera non è al top”, tenendo presente che gli euro consegnati al mercoledì hanno lo stesso valore di quelli sborsati stasera”. Altro mio noto postulato anti-industria: “La birra artigianale è il prolungamento della personalità del birraio, mentre nell’industria non ha importanza chi schiacci i bottoni. Abbiamo birrai cannaioli che fanno grandi birre folli, birrai in camice (ingegneri, biologi e chimici) che fanno grandi birre canoniche o folli, birrai erotomani che fanno grandi birre da orgasmo e naturalmente folli”