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Pionieri si nasce, non si diventa! Nascita della birra artigianale italiana

pionieri“Altroché aromi, retrogusti e menate varie. Quando abbiamo iniziato la gente neanche ci credeva che facevamo birra. La difficoltà era proprio questa: spiegare ai consumatori che noi producevamo birra” È tutta qui, nelle parole di Agostino Arioli, del Birrificio Italiano, la sintesi della fase iniziale, pionieristica, della birra artigianale italiana e della storia dei micro nel Bel Paese. È nella seconda metà degli anni ’90 che comincia a diffondersi il seme dei microbirrifici, piccoli produttori di birra artigianale, spesso con impianti che non superano i 200-250 litri a cotta. Tra il 1995 ed il 1999 pochissimi impavidi imprenditori, spinti soprattutto dalla passione ed incuranti dei consigli di lasciar perdere da parte di quei pochi che già avevano tentato la stessa strada, cominciano a muovere i primi passi nel mondo della birra artigianale.

Senza pastorizzazione né filtrazione, un pugno di birrai in erba iniziano la propria avventura concentrati soprattutto nel nord Italia. Birrifici oggi dalla fama internazionale, come il Birrificio Italiano e Baladin ad esempio. Tutti insieme, ma ognuno con le proprie esperienze da condividere. La formazione dei mastri birrai all’epoca guardava verso l’estero, anche se in Italia non mancavano i maestri. Le prime “dritte” arrivarono proprio da alcuni esperti di birrifici industriali che hanno coadiuvato, e non poco, i “pionieri” nella creazione dei propri laboratori e degli impianti di produzione. “La cosa più entusiasmante era che stava nascendo qualcosa di nuovo” dice ancora Agostino. “Il fenomeno italiano è stato il primo esempio Europeo di quanto stava accadendo negli Stati Uniti, soprattutto per la parte creativa, per la libertà di approccio. In Germania è sempre stato pieno di brewpub, ma c’erano sempre le stesse birre. Noi in Europa abbiamo raccolto il modello americano. Io stesso mi sono ispirato ad un birrificio canadese e sicuramente l’idea è nata così”. “Conservo un ricordo molto vivo di quegli anni, sembra passato molto tempo ma in realtà non è così”, commenta Lorenzo Dabove, meglio conosciuto nell’ambiente birrario italiano ed internazionale come “Kuaska”. “ Io sono entrato praticamente subito in contatto con i primi birrai italiani. Un giorno, colto alla sprovvista, grazie a Flavia Nasini che nel ’95 aveva aperto il primo beershop a Milano, A Tutta Birra, mi ritrovo a Lurago Marinone ad assaggiare le birre del Birrificio Italiano di Agostino Arioli”. Piano piano si è formato un gruppo di una decina di persone, tutte riunite attorno al fulcro della produzione della birra artigianale. Continua Agostino Arioli: “I miei ricordi risalgono ad un personaggio, Guido Taraschi, che aveva aperto la Centrale della Birra di Cremona (oggi chiusa), mio compagno di università alla Facoltà di Agraria. Ci siamo incrociati molto dopo, e scoprii che anche lui si era lanciato nella produzione di birra artigianale. Poi, tramite Kuaska, l’italiano più esperto di birra, abbiamo conosciuto Teo Musso. Ricordo le riunioni e gli incontri: eravamo Io, Teo, i ragazzi del Lambrate, Enrico Borio, Stefano Sausa di Campo San Martino. Sono stati anni di grande, grande entusiasmo, tante risate e bei momenti goliardici. Sono contento di averli vissuti”. Riunioni rimaste impresse anche nella mente di Guido Taraschi, primo presidente della futura associazione Unionbirrai. “Ricordo soprattutto le persone, genuine e con una passione senza precedenti. Se penso ai soliti casini che la burocrazia ci faceva passare… alla fine però siamo riusciti a far parlare tra di loro uffici che fino a poco tempo prima lavoravano a comparti stagni”. Oggi Taraschi è uno dei pochi “pionieri” ad aver lasciato il mondo della birra artigianale. “ Il lavoro era bello, ma massacrante. Oggi faccio altro e tutto sommato non mi manca il mondo della birra artigianale. Mi mancano alcune persone che ne facevano parte, quello sì”. Un periodo che tutti i protagonisti ricordano non senza commozione. “C’era proprio una passione, un trasporto da apprendisti stregoni. Assaggiavamo ogni volta le nostre produzioni, cercavamo pregi e difetti, un bel ricordo della mia vita” sospira Teo Musso fondatore del Baladin, storico microbirrificio di Piozzo (Cuneo). “Eravamo dei veri e propri pionieri in Italia, e questo ci dava un’aurea di potenza, eravamo quelli che avevano avuto l’Idea.” Aggiunge Enrico Borio del Birrificio Beba. “Era bello stare insieme, condividere le esperienze. Ci siamo aiutati parecchio al’inizio ed eravamo sempre pronti con chi stava iniziando”. “All’inizio non c’era neanche l’idea di fare la produzione di birra per il nostro locale” ricorda Giampaolo Sangiorgi, che insieme al fratello e ad una manciata di soci hanno aperto lo storico locale “Lambrate” tra il ’95 e il ’96. “L’idea era di importare birre artigianali da varie parti del mondo. Poi ci è capitato in mano questo volantino di un produttore tedesco di impianti. La cosa ci ha incuriosito a tal punto che abbiamo chiamato la ditta. Da lì è partito tutto.”All’inizio il Lambrate comincia con una produzione di due birre, praticamente senza nome, una chiara e l’altra ambrata. “Siamo stati i primi in Italia probabilmente a cominciare a dare i nomi alle birre ispirandoci alla nostra identità locale, milanese.” Verso sud intanto, alle porte di Roma, nasceva il Birrifico Turbacci, l’unico, tra i primi, ad aver aperto nel centro Italia e per motivi geografici poco integrato nel gruppo storico. Ricorda Giovanni Turbacci, il fondatore: “La gente non ci credeva, ci prendevano per pazzi. Abbiamo rilevato l’impianto di uno dei primissimi birrifici italiani, su al nord, che aveva chiuso i battenti. Nonostante loro stessi avessero avuto parole non proprio confortanti tipo ‘chi ve lo fa fare!’, siamo andati avanti lo stesso ed oggi possiamo ritenerci soddisfatti della nostra intuizione”. Dopo qualche anno, a più di qualcuno il mercato locale non bastava più. “Confesso che mai avrei scommesso che il mercato avrebbe preso la piega che ha preso” dice Teo Musso, tra i primi a portare le sue birre oltre confine. “Per me sarebbe tutto rimasto al consumo locale, ma si vede che sono stato più tenace del previsto. Mi sento anche un pochino colpevole: se non ci fosse stato un elemento trainante, forse le cose sarebbero andate diversamente. Uscire sul mercato nazionale invece che rimanere nel brewpub, come una micro-identità, alla lunga ha pagato”. Certo le difficoltà –soprattutto burocratiche- non sono mancate. Racconta Giovanni Turbacci: “Quando abbiamo iniziato, gli agenti della Finanza dell’UTIF (Ufficio tecnico dell’imposta di fabbricazione, l’ente che si occupa delle accise sui prodotti alcolici, n.d.r.) dovevano essere presenti ad ogni cotta. Questo significava che, ogni volta che dovevamo fare la birra, dovevamo attendere l’arrivo degli agenti e letteralmente eseguire la cotta davanti ai loro occhi. Loro assistevano ed una volta finita la cotta, sigillavano il tutto per ritornare nuovamente alla prossima produzione. Un vero incubo!” Inizi duri anche per far capire alla gente che non si trattava della stessa birra comprata sugli scaffali dei supermercati.

pionieribaladinUna fase che Agostino Arioli racconta così nel suo blog: “In pochi ci conoscevano e inoltre le mie pretese erano forse un po’ troppo per i nostri potenziali clienti: spinare birra torbida, “calda”, “sgasata” e con un “sacco di schiuma” per la quale, tra l’altro, c’era da aspettare quasi dieci minuti, era davvero troppo. Alcuni non aspettavano e se ne andavano senza pagare con la birra ancora a metà riempimento, altri non credevano che producessimo birra perché non vedevano gli enormi serbatoi e gli “alambicchi” che nella fantasia popolare rappresentavano l’unico segno accreditato di una produzione birraria, altri erano convinti che in caldaia di miscela ci facessimo le pizze, ma il più grande fu un anziano del paese che un giorno, con il fare di quello che sa di averti smascherato e sbugiardato ci disse che non avrebbe mai bevuto le nostre birre perché lui sapeva, lo sapevabenissimo, che ci mettevamo l’acqua!”

Aiutarsi a vicenda e riunirsi spesso portò quasi naturalmente alla nascita di una associazione, e così nel 1998 vide la luce Unionbirrai (vedi box). “Ho ricordi quasi romantici di quel periodo” spiega Teo Musso. “Se penso alle riunioni e agli incontri che facevamo noi pionieri di UB. Eravamo in sei e ci vedevamo sempre tutti, più volte la settimana. Una fase pionieristica che comunque è stata difficile proprio da tracciare. Quando cerchi una identità, con davanti un mercato che non c’è, una attenzione che non c’è e cerchi di esprimerti..è stato difficile. E questo fa parte sicuramente degli aspetti meno romantici!” Oggi il mercato è cambiato profondamente da quegli anni. I microbirrifici sono cresciuti in maniera esponenziale: basti pensare che da appena una decina nel 1998, oggi se ne contano quasi 400. Tanto che qualcuno dei pionieri comincia ad accusare la stanchezza. È il caso del birrificio Beba che da qualche tempo a questa parte attende una convincente proposta di vendita per fare armi e bagagli e trasferirsi all’estero. “Quello degli inizi è stato un periodo spensierato” ricorda Enrico Borio, di Beba. “L’ amicizia si è talmente consolidata che considero il gruppo come fratelli di latte, i fondatori di Unionbirrai hanno condiviso quasi tutto all’inizio. Peccato che con le nuove generazioni di birrifici questo spirito è sparito. In poco tempo i numeri sono cresciuti molto. Oggi i meccanismi sono cambiati, e subentrano anche strategie di concorrenza in un Paese dove è sempre più difficile fare impresa”.