Perché un birraio deve saper degustare
Tra le fasi di produzione di una birra si può facilmente affermare che non esiste una più complicata delle altre: è tutto interconnesso, dalla scelta degli ingredienti più adeguati per la birra che si ha in mente, alla cotta vera e propria, dal confezionamento all’esecuzione dei vari passaggi intermedi di spurgo dei lieviti o di dry hopping. C’è uno snodo, però, che risulta cruciale per le sorti di tutto un altro insieme di scelte e situazioni, gestionali e commerciali, ovvero il fatidico momento in cui si deve dare un giudizio alla birra.
Occorre fare subito una premessa, dai contorni forse un po’ tristi ma in qualche modo oggettiva: non tutti i bravi birrai sanno essere in generale bravi degustatori. Può sembrare un’affermazione errata e ingenerosa, ma in realtà rischia di essere vera. Ogni bravo birraio è tale perché ha del feeling con la propria birra, la sa comprendere e valutare identificando spesso se va bene o va male, ma queste doti degustative non sempre sono sviluppate e in grado di individuare precisamente le cause di eventuali problemi.
La routine, i pochi momenti giornalieri dedicabili ad altre bevute al di fuori del contesto del birrificio, la necessità – a tratti sfibrante – di concentrarsi sul proprio lavoro (a volte anche la voglia di guardare narcisisticamente solo il proprio ombelico) portano mediamente un birraio a considerare le proprie birre come un sicuro riferimento di un certo range stilistico, a prescindere da quello che davvero è venuto fuori. Non c’è da condannare eccessivamente questo comportamento, a volte inconsapevole e quasi incosciente. Tuttavia, questo modo di agire è reale e va attribuito al noto inciampo del bias cognitivo, ovvero ad un tipo di errore di valutazione (una parte di tutti i tipi di errori che si possono commettere) che non ha direttamente a che fare con una mancanza di tecnica ma è dovuto alla soggettività, al solo fatto di stare a giudicare una birra propria e di cui si conoscono quasi tutte le informazioni produttive e nella quale si rischia di sentire o non sentire proprio quello che si vuole.
È difficile essere oggettivi: è impossibile esserlo fino in fondo e a discolpa di un birraio, questo è tanto vero per chi produce tanto per chi assaggia dall’esterno, a volte distolto e annebbiato anche da fattori ambientali e psicologici. Per il motivo opposto, dunque, qualcuno tende a non fidarsi per nulla di sé stesso e ad affidarsi quasi esclusivamente ai pareri altrui, al mercato e a chi fa consulenze di professione.
Ricade nel ventaglio di scelte e preferenze possibili ed è più che legittimo, in qualche caso anche fortemente consigliato, se non fosse che possono verificarsi altre situazioni spiacevoli, in quanto non è detto che affidandosi al parere di esperti, questi lo siano davvero. Se si decide di investire, un alternativa valida è quello di farlo anche su sé stessi, frequentando corsi di degustazione degni di questo nome, interessandosi a questo campo parallelamente a quello produttivo, costruendosi una figura di birraio più completa e il più possibile oggettiva nei confronti di quello che c’è nel bicchiere, che sia il proprio o meno.
Riavvolgendo il nastro e ripartendo dalla produzione, in realtà, ci sono diversi strumenti che permettono a un birraio di rendersi maggiormente conto dello stato di salute delle proprie birre, dall’inizio della cotta per finire alle degustazioni finali. Sul fronte delle misurazioni e analisi il tutto è abbastanza intuitivo e ragionevole: si parte assicurandosi di essere nel recinto di replicabilità, in poche parole verificando che i valori di densità iniziale, pH finale del mosto bollito e raffreddato, temperatura di partenza siano corretti e pari a quelli delle cotte precedenti, nonché assicurando al lievito un adeguato tasso di inoculo e le sue temperature di inoculo e di fermentazione preferite fino al fondamentale controllo di densità finale.
A livello visivo, osservare l’asta di livello e notare i cambiamenti attraverso vari stadi di fermentazione aiuta a cogliere la tempistica di quel lievito, comprendendo se la fase tumultuosa è completata o se l’eventuale lagerizzazione finale sta dando i suoi frutti, semplicemente valutando il livello di limpidezza, il depositarsi del lievito verso il fondo, la presenza di parti di luppolo in pellet e così via. Anche qualche assaggio intermedio può essere molto utile, non per cogliere la qualità della birra finale, ma per valutare se tempi e fasi progrediscono secondo previsioni, per le quali è essenziale aver costruito con il passare del tempo e con l’esperienza uno storico a cui fare riferimento per la stessa birra (o per birre simili tra loro).
Qualche birraio con maggiori possibilità di tempo e personale riesce anche a effettuare analisi microbiologiche e chimiche su campioni di mosto o birra secondo un piano di campionamento, il che è uno strumento utilissimo per avere evidenze oggettive sul prodotto finito in grado di confermare o smentire eventuali dubbi che i soli sensi non riescono a fugare. Alcune analisi microbiologiche, per esempio, sono in grado perfino di prevedere quello che anche i degustatori più esperti non possono, ovvero se c’è presenza di microrganismi contaminanti che potranno far risultare una birra infetta nei mesi a venire. Basti pensare a Brettanomyces, Lattobacilli e Acetobacter che anche in presenza di una birra perfettamente godibile oggi, possono restituire domani una birra totalmente diversa dagli standard, sia in termini organolettici (difetti vari) che estetici (sovracarbonazione e gushing).
Anche presupponendo di lavorare sicuri di non avere contaminazioni, in realtà molti birrai ritengono vitale circondarsi di un gruppo di persone seriamente preparate con cui condividere degustazioni, impostando un panel per scovare difetti legati a errori o imprevisti fermentativi. È qualcosa che può essere organizzato in più modalità e che ha come scopo quello di identificare lotti più problematici per non immetterli nel circuito di vendita. Ci sarebbero molti modi di organizzarli e tanti test da poter fare, anche se si tratta di pratiche legate ancora poco al mondo della birra e molto, invece, a quello del vino e dell’olio.
Il compito di un birraio che si faccia assistere da un panel è quello di mettere da parte diversi campioni di tutte le birre oggetto d’esame. Non ne basta solo uno per ogni panelista, dato che sono tanti i fattori che possono influire sulla shelf life di una birra: sicuramente uno delle degustazioni più semplici da organizzare è quella che tenga conto del tempo, organizzando delle degustazioni verticali delle stesse birre. Ma in realtà si può estendere questo discorso tenendo conto di altri disturbi come condizioni di temperatura, luce e, in generale, tutti i fattori di stress. Questi a volte sono volutamente concentrati su una birra proprio per accelerare il suo eventuale declino e scoprire, anzitempo, le sue sorti se sottoposta a forte calore, molta luce e alte temperature per scovare possibili difetti come ossidazione, sovracarbonazione, light struck e in generale tutti i problemi legati al suo invecchiamento.
Chiaramente è importante che si valuti alla cieca e all’oscuro della maggior parte delle informazioni, motivo per cui il birraio in capo a quelle produzioni non dovrebbe neppure far parte di un panel così. Altri modi di operare sono i celebri test a triangolo, dove fra 3 campioni bisogna individuare uno che si distingua dagli altri. Altro test triangolare è il test duo-trio: si assaggia un campione dei tre presenti e si sceglie a quale dei due rimanenti associarlo, operando indirettamente uno scarto tra i due e quindi cercando di individuare il campione fallato, sempre secondo il criterio scelto (può contenere un difetto o più di uno). Nella realtà italiana, spesso composta da una rete di birrifici di grandezza medio-piccola, è praticamente impossibile impostare un piano di controllo qualità rigoroso per ogni birra e ogni cotta, per cui è molto frequente che si faccia (nel migliore dei casi) un certo campionamento, assaggiando di tanto in tanto alcune produzioni, magari le più delicate e più soggette all’azione dei fattori di invecchiamento, accettando così di controllare sommariamente l’andamento delle produzioni.
Tutto quello che il birraio può fare per giudicare la propria birra e il proprio operato è questo. Non è detto che, però, al consumatore arrivi la stessa impressione che viene fuori dagli assaggi durante il processo e da eventuali analisi e panel. Perché a valle di tutto ciò ci sono altre incognite. Quando una birra viaggia fuori dal birrificio e magari verso un distributore intermedio, si aprono gli abissi della conoscenza, in quanto non si può avere la minima idea di dove quel fusto possa andare a finire.
Poi c’è il capitolo servizio, e anche se il livello di preparazione di chi spilla in un locale sia mediamente migliore di un tempo, sono abbastanza frequenti problemi che riguardano la pulizia delle vie, il non perfetto lavaggio dei bicchieri, ma soprattutto capita di non rispettare perfettamente parametri legati alla temperatura di servizio, alla contropressione da impostare sui manometri delle spine, con conseguenti problemi di schiuma abbondante o inesistente, e quindi di disallineamento di molte caratteristiche organolettiche rispetto a quelle della birra spillata in taproom del birrificio. Sembra una sottigliezza ma non lo è affatto, perché questo, nel bene e nel male, può condizionare anche pesantemente la percezione e il giudizio di alcune birre in chi le beve, andando a vanificare molti degli sforzi di chi produce.