One Shot, una critica ragionata alle birre a produzione unica
Viviamo l’epoca della fertilità in campo birrario, ma anche quella della ridondanza e del nonsense. Gli scaffali dei beershop strabordano di nuove proposte, per la felicità di quegli appassionati che ripudiano gli assaggi ripetitivi, sempre in cerca di qualcosa di nuovo, forse ancor più che di qualcosa di buono. È il mercato che lo chiede e il marketing che lo impone, aumentare la visibilità di un marchio tenendo sempre molto alta l’attenzione dei beer geeks con un profluvio di novità, per far parlare di sé. I geeks non sono certo la maggioranza dei bevitori di birra artigianale ma fanno molto più chiasso degli altri e hanno bisogno di stimoli continui e argomenti sempre nuovi per poter proliferare. Esauriti tutti gli stili classici, tutte le loro possibili reinterpretazioni, riesumati stili meno noti o estinti, si è presto passati all’aggiunta di ingredienti “extra birrari” per inventare qualcosa di nuovo, permutando in maniera più o meno intelligente o casuale stili esistenti con ingredienti “diversi” per continuare ad uscire sul mercato con qualcosa di innovativo, o quantomeno di curioso. È una corsa affannosa che a volte non si cura granché della bontà della ricetta, sacrificata sull’altare dall’esigenza commerciale. Una corsa che pare trovare il suo fine ultimo nell’essere perpetua, obbligando alla continua rincorsa chi, avendone assaggiate molte, non può certo tollerare di non assaggiarle tutte e chi, semplicemente, è troppo curioso per continuare ad assaggiare solo ciò che di buono già conosce.
Questa tendenza potrebbe essere fatta risalire alle cosiddette birre “famolo strano”, per dirlo alla romana, che erano in voga in Italia fino a qualche anno fa e che oggi, fortunatamente, sono quasi del tutto scomparse: le birre alle puntarelle, ai fagioli, al tartufo e a qualsiasi altra amenità si potesse trovare dal verduraio o dal droghiere. Le motivazioni allora erano però molto diverse: qualche volta si trattava dell’idea geniale o malsana di qualche birraio, altre volte erano una semplice boutade, più spesso si trattava della ricerca di un legame col territorio che nella birra è spesso impossibile esprimere con gli ingredienti base e che quindi andava ricercato in qualche altro prodotto locale (anche se magari una zona non aveva granché da offrire in termini di ortofrutta). In questi casi, il tentativo di colpire la curiosità degli appassionati risiedeva nelle caratteristiche della birra, più che nell’inseguimento della novità da parte di chi ha la necessità di sentirsi sempre “sul pezzo. La tendenza odierna, che ovviamente è solo una tecnica di marketing, viene naturalmente dall’estero e da quei birrifici o brewfirm modaioli, nati piccoli e con un pubblico di nicchia molto fidelizzato e appassionato, che hanno iniziato ad andare oltre la proposta classica di un certo numero di birre fisse e oltre anche l’inserimento di qualche birra stagionale a rotazione. Un antesignano assolutamente involontario può essere individuato nel birrificio vallone Fantome, il quale negli anni da sempre ha affiancato alla sua Saison classica un buon numero di birre differenti, inizialmente solo stagionali e cicliche, successivamente anche estemporanee e con ingredienti improbabili. La sua ultima creazione è stata presentata al Villaggio della Birra ed era un birra agli spinaci, di colore verde marziano. Dove finisca il genio commerciale di Dany Prignon e inizi la sua follia birraria non è dato saperlo, ma sebbene sia piuttosto pretestuoso sostenere che il suo operato possa aver ispirato la filosofia commerciale di birrifici come Mikkeller e degli epigoni successivi, anche alla luce di una scarsa cura dell’aspetto comunicativo e grafico, sicuramente quello che poteva essere un approccio scanzonato e iconoclasta si è reincarnato oggi in una tecnica commerciale che ha finito per intercettare un’ampia frangia di appassionati alla ricerca di continue novità.
Senza nuovi argomenti non si bene di cosa discutere e cosa comprare, nuove etichette producono invece dibattito e spesso pubblicità gratuita. Questa strategia commerciale ha avuto una diffusione molto ampia in Europa e negli Stati Uniti presso quei nuovi birrifici desiderosi di farsi conoscere velocemente presso gli appassionati più giovani e fidelizzabili e nei paesi di tradizione birraria più consolidata è stato anche un modo per affrancarsi da un classicismo birrario “polveroso” introducendo un modernismo contemporaneo più fresco e modaiolo – e redditizio ovviamente. In Italia il capofila di questa politica commerciale è sicuramente Bruno Carilli del Birrificio Toccalmatto che ha creato appositamente una linea produttiva di “One Shot”, birre a produzione unica, dedicate espressamente alla sperimentazione di idee birrarie più o meno argute, spesso non ripetibili e non ripetute a meno di clamorosi successi di pubblico. Si può pescare dal mazzo l’idea geniale ed esaltante come la provocazione fine a sé stessa, oppure una birra stimolante sulla carta ma inutile nel bicchiere. Tutto questo appare comprensibile non parlando di ricette nate da una cernita di idee birrarie successivamente affinate, ma piuttosto dettate dall’esigenza di tentare continuamente qualcosa di spiazzante che ancora non esiste sul mercato, sia pur lavorando magari all’interno di stili o produzioni consolidate. Se Toccalmatto è il leader in Italia di questo genere di proposta, certamente in un paese birrariamente giovane come il nostro, senza tradizione e orientato a un mercato giovane e dinamico, il resto dei birrifici non sono stati a guardare. Pur con frequenza più contenuta quasi tutti i birrifici di maggior successo rilasciano ciclicamente nuove produzioni per tenere viva l’attenzione del proprio pubblico e, perché no, per divertirsi in birrificio sperimentando. Quasi sempre queste nuove produzioni sono birre che prevedono qualche ingrediente poco comune, oppure la commistione di stili classici con tecniche moderne, oppure qualche curiosità nell’uso dei luppoli che le rendono uniche. Nonostante le American IPA siano fra le birre di maggior successo ancora nessun birrificio italiano di rilievo ad esempio ha pensato di inserire nella propria linea produttiva “standard” una seconda American IPA o APA, variando luppoli e malti come spesso si fa negli Stati Uniti, mentre per citarne un solo esempio Brewfist ha proposto non molto tempo fa la Space Frontier, una American IPA che prevede l’aggiunta di mosto di moscato, birra d’occasione che poi è rimasta nella proposta fissa del birrificio, almeno finora.
Ultimamente i destini di queste birre si incrociano spesso con quelli delle Collaboration Beer, cioè quelle birre che nascono dall’unione di sforzi e idee fra due o più birrifici e birrai. Bisogna essere onesti, spesso sono birre velleitarie, create più per esigenze commerciali che per reale desiderio collaborativo. Nel tentativo di emerge dall’inflazione odierna di birre, birrifici e idee più o meno strampalate, spesso si ricorre appunto all’ingrediente “strano”. Queste birre quasi sempre restano delle meteore, “One Shot” appunto, a meno che non se ne imbrocchi una particolarmente buona. Le eccezioni e le buone intenzioni fra questi progetti, togliamo i sottintesi, esistono ovviamente. A questo punto va fatta una precisazione: in Italia alcuni fra i migliori birrifici sono famosi proprio per delle produzioni atipiche, rare, che spesso prevedono frutta o spezie e tecniche produttive originali. Questi sono prodotti di frontiera certamente, quasi sempre in cerca di un legame col territorio, ma sono veramente birre di ricerca, riprodotte con regolarità, affinate nelle ricette , birre standard di una linea produttiva anche se rare e originali nella creazione. Le birre descritte in precedenza hanno invece un carattere creativo ma estemporaneo e spesso ricorrono all’ingrediente più per la novità in sé che per il ruolo che esso può apportare all’equilibrio complessivo e alla complessità. Possiamo quindi trovarci frutta di ogni tipo, verdura, spezie, batteri e brettanomiceti, acido lattico, passaggi in botte, malti affumicati, virtualmente qualsiasi cosa, anche mischiati fra loro e innestati su qualsiasi tipologia di birra. E quando dico qualsiasi cosa, penso ad esempio agli Stati Uniti dove hanno fatto anche la birra col bacon…
Le potenzialità sono enormi, ad esempio la frutta, se ben utilizzata, può apportare quell’acidità che nelle birre a fermentazione “standard” manca per la natura stessa del prodotto e ampliare il bouquet, producendo prodotti notevolissimi. Ma i rischi di produrre un minestrone sono enormi, se si mischiano ingredienti tirando i dadi o quasi. Cosa un appassionato cerchi nel mondo della birra è in fondo una scelta personale. C’è chi apprezza soprattutto l’aspetto sociale di bere una cosa buona insieme a persone interessanti; chi vuole semplicemente bere meglio possibile; chi beve birra con un approccio più intellettuale, cercando un senso, una chiave di lettura, una estetica nel prodotto e nell’evoluzione del gusto e del mercato; c’è chi si annoia e ogni tanto ha bisogno di spezzare la routine con una novità; c’è chi ha l’approccio del collezionista, a volte in maniera critica, altre in maniera beatamente entusiastica e ludica, ed è disposto a provare proprio di tutto. A mio modo di vedere birre One Shot e ricette variamente estemporanee soffrono di due limiti oggettivi: quello di non nascere quasi mai da un processo di ricerca, ma dalla sperimentazione pura o quasi, e soprattutto quello di non prevedere una fase successiva di affinamento della ricetta. Un buon birrificio, nella sua linea di birre, necessariamente porta avanti un lavoro di perfezionamento sui singoli particolari del processo produttivo e sulle ricette stesse. Questo fa sì che una birra “single batch” sia generalmente meno soddisfacente di una “standard”, proposta con regolarità e proprio per questo più affinata. Ciò nondimeno dal cilindro di un bravo birraio possono uscire birre stupefacenti che se al primo colpo non sbaragliano per perfezione possono comunque commuovere per originalità, colpire nel segno e anche stupire abbattendo preconcetti: mai porre freno alla genialità se nasce genuina. Il problema, mi si conceda la battuta, è che le birre poi bisogna anche pagarle. Di fronte al dilemma “prendo questa che è la migliore nel suo stile ma la conosco a memoria o provo quest’altra di cui mi incuriosisce l’idea ma che potrebbe anche essere tranquillamente una fetecchia?” ognuno ha la sua risposta. Sempre diversa, per fortuna. Perché il modo in cui bere birra resta “una sola moltitudine”.