Monta l’onda delle beer firm, le birre prodotte in conto terzi
Ho sempre ritenuto che per l’Italia il numero massimo di microbirrifici, sostenibile dal mercato, fosse attorno ai 300, ma evidentemente mi sbagliavo visto che oggi si aggirano sui 500, con molti che stanno per inaugurare e altre realtà che stanno studiando come aprire. Il fenomeno è senz’altro degno di interesse: in così poco tempo, meno di venti anni, la crescita è stata esponenziale. Alcuni birrifici storici si sono ampliati e consolidati, altri hanno trovato il loro posizionamento di nicchia, altri lo stanno cercando, altri ancora hanno in progetto di ingrandirsi. E pochissimi, negli anni, hanno chiuso. In tutto questo sta prendendo sempre più importanza un altro fenomeno, quello delle beer firm. In sostanza, birrifici senza impianto. Storicamente è una consuetudine del Belgio, dove il birraio non ha necessariamente l’impianto ma sfrutta quello di amici e conoscenti o semplici locatori per brassare le proprie birre.
Alcuni dei birrifici che oggi hanno rilanciato il mercato belga e rinnovato la secolare tradizione locale hanno iniziato proprio brassando su impianti altrui. Tra questi ci sono De Ranke e De La Senne, con il secondo che ha iniziato proprio nell’impianto del primo: oggi ciascuno ha il suo, ed entrambi faticano a stare al passo con le richieste dei loro clienti. In Belgio il birrificio De Proef è strutturato appositamente per lavorare conto terzi e tante sono le beer firm che si appoggiano al “Professore”. Tra questi svetta Mikkeller, uno dei birrifici più noti al mondo con sede in Danimarca, che non essendo dotato di impianto proprio fa eseguire le sue ricette (anche) in Belgio. In Germania è comune utilizzare l’imbottigliatrice di altri birrifici, ma la pratica di produrre presso terzi è piuttosto rara e poco radicata, essendo quello un Paese più che altro noto per avere un birrificio per villaggio, al massimo due se quest’ultimo è un po’ più grande. Nella zona a nord della Baviera, o meglio nell’Alto Palatinato e in Franconia, esistono cittadine dove l’impianto è di proprietà del Comune e alcune famiglie sono deputate, secondo un calendario prefissato, a produrvi la propria birra. Il più famoso è il villaggio di Windischeschenbach con le sue Zoigl, la tipologia di birra ivi brassata. Ma di vere e proprie beer firm conosco soltanto Freigeist Bierkultur di Sebastian Sauer e Fritz Ale di Fritz Wülfing. In Italia i birrifici senza impianto sono all’incirca una sessantina. Un numero piuttosto interessante, che va analizzato. E qui cominciano le difficoltà. Se al momento non è stata data una definizione di “birra artigianale” (e ovviamente non esiste una legislazione specifica per i microbirrifici), figuriamoci se è stata riconosciuta la categoria dei beer firm. Non è fatto obbligo di indicare in etichetta altro che il codice accise del birrificio che materialmente produce le birre, ma nel caso di una birra in fusto diventa del tutto impossibile risalire al birrificio originale. In sostanza, o si conoscono i personaggi che stanno dietro al marchio, oppure è estremamente difficile sapere se lo stesso ha un impianto proprio oppure no.
Che il fenomeno sia importante lo dimostra il fatto che alcuni birrifici si sono attrezzati per il conto terzi. In alcuni casi una volta aperta l’attività ci si è resi conto di quanto fosse difficile vendere il prodotto e così, un po’ casualmente, si è operato uno spostamento verso la produzione per “esterni”, a volte prestando letteralmente l’impianto, altre eseguendo le ricette altrui o creandole ad hoc. In controtendenza è BrewFist, nato a Codogno nel 2010 con il chiaro intento di lavorare non solo per il proprio marchio, ma anche e soprattutto per altri birrifici: con l’andare del tempo le birre di casa hanno però raggiunto un notevole successo, tanto che lavorare per altri è diventato oggi parecchio difficoltoso. Tra i birrifici storici anche Bi-Du, nel periodo di transizione tra la chiusura del locale di Rodero e l’apertura del nuovo a Olgiate Comasco, si è appoggiato ad amici birrai – tra gli altri Orso Verde e Le Baladin – per non far mancare ai propri clienti Rodersch e ArtigianAle. Anche Birra Amiata ha usufruito di impianti altrui in attesa di partire nella nuova sede, e oggi essa stessa ospita regolarmente altri birrifici, con o senza impianto. Stesso discorso per il birrificio agricolo Baladin, che oltre a mettere l’impianto a disposizione di alcuni birrai per le loro cotte, lavora anche per birrifici che ne hanno uno magari troppo piccolo per sostenere la richiesta del mercato (in quest’ultimo caso non si può però parlare di beer firm, che implica come detto l’assenza di un impianto proprio). Tra i microbirrifici veri e propri, nel senso di birrifici con bassa capacità produttiva, Endorama, in provincia di Bergamo, riesce comunque a produrre birre per Stefano Allera, che nel suo progetto di beer firm – chiamato Irreverence e legato alla sua società di distribuzione – si appoggia anche ad altri birrifici, con i quali discute la ricetta da vero e proprio “Beer Architect”. Ma quali sono i motivi che spingono a creare una beer firm? Anzitutto i costi per iniziare un’attività in proprio, a cui si aggiunge il timore di non riuscire a vendere il prodotto. Ci si inventa dunque un marchio, si preparano le ricette (o si incarica il birraio che ospiterà le cotte) e si inizia l’attività. Se nel tempo la cosa commercialmente funziona, si può magari compiere il salto in proprio. Hibu, ad esempio, dopo aver cominciato così è oggi completamente autonomo, proponendo addirittura anche il conto terzi. Altrettanto stanno facendo nel Lazio Stavio e Cerevisia Vetus, attualmente beer firm ma con ben chiara in testa l’idea di costruirsi il proprio impianto e continuare l’attività da sé. Per ora si stanno facendo apprezzare dal mercato, organizzandosi nel contempo per trovare fondi e finanziamenti. Un altro caso decisamente noto di beer firm è quello di Revelation Cat: alcune birre vengono provate sull’impianto pilota a Roma e poi prodotte presso altri, normalmente all’estero. In altri casi sempre dall’estero vengono comperati batch di birre, poi maturati nella cantina romana. In sostanza, grazie al fatto di non dover sostenere costi fissi ha potuto muoversi con grande libertà, proponendo birre anche estreme e sperimentando molto. Oggi si è addirittura dotato di un impianto in Gran Bretagna, dimostrando un’altra cosa che ho sempre pensato: fare birra in Italia è economicamente poco sostenibile (costi di impresa, reperimento materie prime, tasse, leggi e via dicendo), mentre produrre in Paesi dove la cultura brassicola è insita nel DNA, con leggi ad hoc e tassazioni umane, è decisamente più conveniente. Ricordando inoltre che produrre all’estero per un birrificio italiano è assolutamente legale. A dare grande risalto al fenomeno delle beer firm in Italia è però stato, ed è tuttora, il progetto Buskers. La creatura di Mirco Caretta, proprietario di uno storico beershop di Roma, è in questo caso definita “Gipsy Brewery” (in pratica, birrificio nomade), con le birre preparate in vari birrifici grazie alle amicizie nate negli anni nel settore. A tutti gli effetti Mirco è, come Stefano Allera o Mikkel Borg Bjergsø (il deus ex machina di Mikkeller), un Beer Architect, che discute le ricette ora con Moreno Ercolani (Birrificio Olmaia), ora con Luigi “Schigi” D’Amelio (Extraomnes), ora con Beppe Vento (Bi-Du) e altri ancora.
Anche molti pub e distributori hanno oggi le loro etichette di birre, in alcuni casi semplicemente una birra “dedicata” da un birrificio, in altri un marchio vero e proprio. Ambrosiano, a Milano, è stato ad esempio uno dei primi locali ad avere una birra a suo nome. Qui si è in realtà un po’ border line al fenomeno, in bilico tra beer firm e birrificio in senso stretto: la ricetta è infatti firmata Ambrosiano, e viene eseguita dal loro birraio, che credo usi dei tini di proprietà per la maturazione e la fermentazione della Regina Nera, la loro unica birra. Per quanto riguarda invece i distributori oltre al già citato caso di Allera si segnala anche Turatello, oggi assorbito da Interbrau, che si è creato una propria linea di etichette facilmente reperibili nella grande distribuzione. In questi giorni addirittura il blog Cronache di Birra sta per mettere in commercio la sua IPA, via di mezzo tra una collaboration brew tra Andrea Turco, autore del sito, con Moreno Ercolani dell’Olmaia e Leonardo Di Vincenzo di Birra del Borgo (dove la birra è stata prodotta, utilizzando il vecchio impianto) e una beer firm. Come ogni fenomeno di moda, anche la birra artigianale fa gola a molti. Alcuni si sono scottati costruendo impianti assurdi e producendo birre pessime, altri, più intelligentemente, hanno creato delle beer firm costruendosi il loro mercato, senza alcuna intenzione di fare il passo successivo. Quando si stancheranno, o le cose non andranno bene, semplicemente si dedicheranno ad altro. Nel frattempo sostengono dei birrifici esistenti, che producono per loro. Come dire: un colpo al cerchio e uno alla botte.
Personalmente sono abbastanza combattuto sul fenomeno. Da un lato ne riconosco il potenziale, un po’ come le birre one-shot (brassate una sola volta e mai ripetute) o le collaboration brew (birre collettive tra due o più birrai), di ricerca e innovazione, che spesso possono portare ventate di novità. Diciamo che se la beer firm propone etichette interessanti (e ovviamente buone), se so che il birraio è partecipe alla realizzazione delle cotte ed è il creatore delle ricette, e soprattutto se è trasparente che si tratti di un birrificio senza impianto e non si fa mistero di dove vengono prodotte le birre, sono molto propenso ad avere un’opinione favorevole. Se poi il progetto prevede in seguito l’acquisto di un impianto proprio, per me, la beer firm ha vinto! Se d’altro canto si tratta solo di una questione economica mi vien da dire – parafrasando una battuta non politically correct – che è facile fare gli imprenditori con i capitali altrui, o ancora se la questione è di ego, nel senso che tutti fanno birra allora anche io devo avere il mio brand e le mie etichette, ho un parere negativo. Rientra in un esempio non buono di beer firm anche il caso in cui tutto (ricetta, gestione della cantina e via dicendo) è lasciato al birrificio e al birraio che ospitano il progetto. Quantomeno pretendo che dietro ad una beer firm ci sia un birraio, un architetto della birra, non una persona che manco sa come funziona un impianto o la differenza tra due lieviti, limitandosi a chiedere semplicemente “fammi una chiara”.