EsteroInghilterra

La nuova sfida delle Public House

La domanda che oggi ci poniamo è: come sta il pub inglese? Purtroppo non bene. Dal 2002 al 2012 secondo la British Beer&Pub Association il numero delle public houses è passato da 60.100 a 49.400, con una media di 1.000 chiusure l’anno in più rispetto alle nuove aperture. I motivi di questo preoccupante calo sono molteplici, molti dei quali non relativi alla sola Inghilterra: il cambiamento nello stile dei consumi, il divieto di fumo all’interno dei locali che spesso spinge all’opzione casalinga, la dura legislazione sul drink&drive (che colpisce soprattutto nelle zone rurali), le gravose tasse sulla produzione della birra, fino a tirare in ballo la perdurante crisi economica. Ma è altrettanto vero che esiste un importantissimo fattore legato alla peculiarità del mercato inglese che ha giocato, spessissimo, a sfavore dei pubs: il sistema delle tied houses. Le tied houses nascono nel tempo come alehouses collegate direttamente al birrificio, delle quali veniva concesso l’usufrutto ad una terza persona – il tenant – in cambio di un affitto (o di un cospicuo aiuto sull’acquisto) e dell’obbligo di acquisto della birra dal birrificio proprietario.

Negli anni ’90, in pieno Tatcherismo, la cosa venne vista come un intralcio al libero commercio e i birrifici furono costretti a liberarsi dei locali, che passarono nelle mani di grandi compagnie di privati ribattezzate più tardi PubCos (da Pub Companies): per dare un’idea delle dimensioni dell’operazione basti pensare che la sola Punch Taverns ne comprò circa 6.000, per un valore sui 3 miliardi di sterline. Putroppo questa mossa non servì a rimuovere l’ostacolo alla concorrenza posto dal contratto di vendita esclusiva: tale accordo rimase infatti in essere tra le PubCo e l’affittuario. Un sistema che ha generato una sempre minor scelta da parte del cliente, un abbassarsi medio della qualità della birra e, recentemente, anche un continuo calo del ricavo marginale del publican, l’affittuario del locale. Avendo infatti i birrifici la garanzia di vendere i propri prodotti e scaricare parte del rischio sul proprio locatario, non c’era l’effettivo interesse a produrre qualità estrema. Questo meccanismo viene ora portato avanti dalle PubCos, che comprano all’ingrosso la birra ottenendo significativi sconti e poi di fatto la impongono ai publican.

Le PubCos spesso inoltre aumentano i prezzi della birra in modo arbitrario senza scaricare verso il basso la scontistica che riescono ad ottenere, rosicando sempre di più il margine di guadagno del publican che già deve affrontare il difficile momento storico. E qui si aggrava la spirale negativa: se la birra venduta non ha appeal e il margine di guadagno è basso (c’è anche l’affitto della licenza da pagare), allora il poco potere di investimento si traduce in un’offerta complementare scadente, vedi una cucina non curata. Il CAMRA nel 2010 presentò all’OFT (Office of Fair Trade) una mozione perchè fosse dichiarato come anticoncorrenziale la vendita obbligata dei prodotti da parte dei landlords (le PubCos) a prezzi decisi unilateralmente ai propri affittuari (i publican), ma la mozione fu respinta. Se svestiti della loro valenza sociale e impoveriti nell’offerta non sorprende insomma che anche i pubs siano in difficoltà. Ma qual’è il loro futuro allora? Nelle città stanno fiorendo i cosiddetti gastropub e le vendite dirette legate alle birrerie craft. Spesso i primi sono indipendenti (termine che acquista ancor più valore alla luce di quanto detto) e propongono un’offerta gastronomica e birraria di qualità, mentre le seconde giocano invece sull’appeal di cui tutti i birrifici craft godono in questo momento, la capacità cioè di raccontare una storia. Come succede per il nostro Paese in questi locali si può veicolare una nuova immagine di birra, lontana dalle dinamiche industriali e dove la qualità si pone al centro dell’offerta, cosa che putroppo non si può fare in pub non indipendenti.