Approfondimenti HBHomebrewingIn vetrina

Introduzione all’isobarico e alla contropressione

Una delle prime cose che ho imparato quando ho iniziato a produrre birra in casa è che l’ossigeno non fa bene alla birra. Qualsiasi testo, anche quello meno tecnico o a stampo divulgativo, indica l’inoculo del lievito come l’unico passaggio in cui ha senso, anzi è necessario, aggiungere ossigeno nella birra. In genere si adempie a questo compito mescolando vigorosamente il mosto nel fermentatore, in modo che l’aria, composta al 21% di ossigeno, si solubilizzi. C’è una ragione molto semplice per cui l’ingresso di ossigeno nel mosto, quando ancora non è stato trasformato in birra, è importante: serve al lievito, che lo andrà a consumare per avviare al meglio i processi metabolici della fermentazione. L’avventura dell’ossigeno nella birra deve tuttavia terminare qui, perché in qualsiasi altro momento il lievito non sarà in grado di consumarlo – essenzialmente perché non ne avrà più bisogno – e l’ossigeno, libero di girovagare per la birra, andrà a cercare altre molecole con cui interagire creando potenziali disastri organolettici. E di composti potenzialmente attaccabili dall’ossigeno ce ne sono tanti nella birra, quindi meglio tenere alta la guardia. Fin qui non abbiamo detto nulla di nuovo. Come accennavo, qualsiasi libro che insegna a fare birra ci mette in guardia su questo aspetto: mai “splashare” il mosto caldo, porre grande attenzione durante i travasi a freddo, favorire una caduta leggera e delicata della birra nelle bottiglie e tapparle subito. Fino a oggi sembrava tutto semplice, lineare, poco impegnativo.

Poi sono arrivate le IPA e le APA, il quantitativo di luppolo che finiva nella birra è andato progressivamente aumentando fino agli eccessi delle New England IPA (le famose NEIPA), espressione esasperata della spremuta di luppolo. Se l’ossidazione è da sempre un problema per l’industria birraria, con l’intensificarsi della luppolatura è presto diventata un nemico da tenere a bada anche nella produzione artigianale, ivi compresa quella casalinga. Questo perché le birre cariche di luppolo soffrono molto l’ossidazione: sono sufficienti poche ppb (parts per billion, ovvero parti per miliardo) di ossigeno disciolte nella birra per rovinarla irrimediabilmente. Nelle luppolate gli effetti risultano evidenti anche agli assaggiatori meno esperti: repentina perdita di aroma, trasformazione dei toni resinosi/tropicali/agrumati in uno spento mix fruttato che ricorda le caramelle di gelatina aromatizzate artificialmente, ma soprattutto il cambio nel colore. Vedere la propria birra diventare grigia, rosa o marroncina nel giro di poche settimane, anche se conservata al freddo nel frigorifero, nonostante tutte le attenzioni applicate durante il processo produttivo (non splashare, trasferimenti gentili, il lievito che dovrebbe consumare l’ossigeno in bottiglia) non è un’esperienza gratificante. Questi cambiamenti così evidenti nelle birre luppolate hanno portato anche gli homebrewer meno innovatori e tecnologici a mettere in discussione il proprio metodo di produzione. Forse le classiche attenzioni menzionate nei testi classici non bastano, è necessario fare qualcosa in più. Ed ecco che due nuove parole hanno iniziato a intasare i motori di ricerca di forum e gruppi per homebrewer: contropressione e isobarico. Ma di cosa stiamo parlando? Proviamo a capire meglio.

Il termine contropressione nasce dall’idea, in questo caso sarebbe più opportuno dire dalla necessità, di spingere la birra fuori dal fermentatore evitando il contatto con l’aria. Sembrerebbe una cosa facile, ma un trasferimento di questo tipo richiede una serie di accortezze e attrezzatura specifica. Il metodo classico per spostare la birra da un contenitore all’altro è aprire il rubinetto lasciandola scendere per gravità, operando un passaggio che viene definito “a caduta”. Purtroppo, a causa di leggi fisiche che non si possono ignorare, mentre la birra esce dal fermentatore qualcos’altro deve prendere il suo posto all’interno del contenitore, altrimenti il flusso si blocca. Questo qualcos’altro, se non si opera in contropressione, è l’aria presente nell’ambiente (con la sua bella quota di ossigeno). Per evitare che entri aria, possiamo applicare un piccolo tubo collegato a una bombola di anidride carbonica sotto pressione: spingiamo nel fermentatore anidride carbonica, che a sua volta spinge la birra fuori dal rubinetto. In questo modo evitiamo che la birra entri a contatto con l’aria prima di uscire dal fermentatore. L’anidride carbonica non reagisce con i composti presenti nella birra, preservandone il profilo organolettico. Questo, del resto, è anche il metodo grazie al quale la birra finisce dal fusto al bicchiere quando ordiniamo una pinta al pub. Di contro, le famose botticelle “a caduta”, quelle aperte con la classica martellata molto folkloristica, o i cask inglesi, non vengono gestiti con questo metodo: mentre la birra esce, l’aria entra, ragion per cui la birra all’interno di questi contenitori va consumata nel più breve tempo possibile. La contropressione di per sé non è però sufficiente per evitare il contatto della birra con l’aria durante la fase di trasferimento o imbottigliamento. Anche spingendo la birra fuori dal fermentatore in contropressione, se questa finisce in un altro contenitore pieno di aria, la solubilizzazione dell’ossigeno è inevitabile. Le bottiglie “vuote” che usiamo per imbottigliare la birra non sono realmente vuote ma, appunto, piene di aria. Inoltre, dato che è necessario lasciare un piccolo spazio vuoto nel collo della bottiglia per evitare che il tappo salti quando la birra viene agitata, altra aria rimane nella bottiglia anche dopo che è stata tappata. Diversi esperimenti e misure quantitative hanno dimostrato che l’ossigeno che rimane nel collo della bottiglia è più che sufficiente per ossidare la birra nel giro di poche ore, specialmente se questa è fortemente luppolata. Se la birra rifermenta in bottiglia, come spesso avviene nelle produzioni casalinghe, il lievito consumerà parte di questo ossigeno ma in molti casi non in misura sufficiente. Quello che rimane farà inevitabilmente dei danni.

È qui che le cose si fanno ulteriormente complicate. Come svuotare le bottiglie dall’aria prima che vengano riempite con la birra spinta fuori dal fermentatore grazie alla contropressione? Nei sistemi professionali viene usata una pompa per il vuoto che risucchia l’aria fuori dalla bottiglia, creando una pressione negativa al suo interno. Il vetro riesce a resistere a questa pressione negativa (l’alluminio delle lattine no, si accartocciano, ma si possono riempire fino all’orlo). Attraverso un paio di passaggi di vuoto e un paio di passaggi successivi in cui si spara anidride carbonica, si riesce a ridurre – attenzione, non a eliminare del tutto – l’ossigeno in bottiglia. A questo punto si porta la bottiglia (svuotata dell’aria e riempita di anidride carbonica) alla stessa pressione della birra nel fermentatore e si spinge delicatamente la birra in contropressione dal fermentatore alla bottiglia. Durante il trasferimento si lascia uscire l’anidride carbonica in eccesso dalla bottiglia tramite un piccolo rubinetto, man mano che questa viene riempita dalla birra. In questo sistema, chiamato anche isobarico per via della pressione costante durante il trasferimento, la birra deve essere già carbonata (ovvero già frizzante) quando si trova nel fermentatore. Ciò implica una ulteriore complicazione: servono fermentatori in grado di reggere pressioni più alte, perché l’anidride carbonica non si solubilizza in quantità sufficiente nella birra a pressione atmosferica. Quindi addio ai buoni vecchi fermentatori in plastica, economici e comodi, che lasciano il posto a costosi fermentatori “evoluti” in plastica a tenuta stagna o addirittura in acciaio inox, molto simili a quelli utilizzati in birrificio. Il tutto con pesanti ripercussioni sul portafoglio del produttore casalingo.

 

Mettere insieme un sistema isobarico in casa non è facile. Richiede competenza, pratica, attrezzatura piuttosto complessa e anche abbastanza costosa. Ma, soprattutto, aumenta enormemente i tempi necessari per l’imbottigliamento. Se prima era sufficiente collegare l’asta per il travaso al rubinetto del fermentatore per riempire una bottiglia in una decina di secondi, ora è necessario collegarla a un sistema chiuso, fare il vuoto per un paio di volte, saturarla per un paio di volte ancora con anidride carbonica, far fluire lentamente la birra in contropressione, tappare il più velocemente possibile. Una serie di operazioni che rendono l’imbottigliamento, già piuttosto noioso di per sé, ancora più lungo e più tedioso. Inoltre, se prima la rifermentazione in bottiglia ci garantiva un consumo minimale dell’ossigeno rimasto nella birra o nello spazio vuoto del collo, il trasferimento di birra già carbonata elimina questo cuscinetto di protezione. Il che significa che anche il più piccolo errore (per esempio una pompa per il vuoto difettosa o un sistema male assemblato) può portare danni irreparabili alla birra. A tutto ciò va aggiunto un elemento chiave: misurare l’ossigeno disciolto nella birra è complicato e richiede strumenti costosi che quasi nessun produttore casalingo può permettersi di acquistare (parliamo di centinaia di euro), specialmente dopo aver già investito parecchi soldi nell’attrezzatura necessaria per i trasferimenti in isobarico. Il risultato è che spesso vengono suggerite metodiche molto complesse senza aver verificato, da un punto di vista quantitativo (ovvero misurando la concentrazione in ppb dell’ossigeno nella birra appena imbottigliata) l’efficacia del proprio metodo.

C’è chi adotta vie di mezzo, rinunciando alle bottiglie e consumando la birra direttamente dal fusto, già carbonata. O chi “spruzza” anidride carbonica in ogni bottiglia prima di riempirla di birra in contropressione, senza fare precedentemente il vuoto e senza curarsi troppo dell’effettivo livello di saturazione della bottiglia. In questi casi si rifermenta comunque in bottiglia, per mantenere il famoso cuscinetto di sicurezza che protegge la birra da quella piccola quantità di ossigeno che comunque rimarrà nella bottiglia. Per avere un’idea dei quantitativi di cui stiamo parlando, in genere si ritiene che una concentrazione di ossigeno superiore alle 100 ppb sia sufficiente a rovinare una birra in bottiglia nel giro di poche settimane (parliamo di birre luppolate, molto sensibili all’ossigeno). 100 ppb corrispondono a 0.1 ppm (parti per milione). Per avere un riferimento, basta pensare che l’acqua, lasciata a temperatura ambiente a contatto con l’aria, può assorbire diverse ppm di ossigeno in poche ore, anche senza agitazione o mescolamento.

La domanda nasce spontanea: tutta questa maniacale attenzione è necessaria? Difficile dare una risposta univoca. Come già scritto, l’esecuzione perfetta del metodo isobarico è fondamentale per raggiungere il risultato. Un piccolo errore può compromettere tutto, e non è piacevole quando abbiamo investito tempo e denaro in quantità considerevoli. Sta a ciascuno farsi la propria idea e condurre i propri esperimenti. Procedere per gradi è probabilmente l’approccio migliore: si parte con poca attrezzatura, si prende dimestichezza con il processo di produzione, si assaggia. Si cerca di migliorare le proprie produzioni fino al livello in cui l’attrezzatura corrente lo permette. Poi, magari, si cambia. Ci si evolve, ma sempre con consapevolezza. È normale – e anche sano, direi – che chi produce da molti anni senta il desiderio di cambiare, brassare la New England IPA perfetta. Ma è anche importante che chi muove i primi passi nella produzione casalinga non si senta scoraggiato in partenza, pensando che non si possano produrre birre buone (e anche ottime) senza l’utilizzo di complicate e costose attrezzature. Secondo alcuni, la maniacale attenzione all’ossigeno sta snaturando questo hobby, ma io non la vedo così. Alla base c’è nuova conoscenza che si genera, maggiore consapevolezza del prodotto che si beve e competenza che si diffonde. Passione e ricerca, da sempre alla base di questo movimento. L’importante è non perdere di vista l’obiettivo finale che non è l’impianto, ma la birra. E ricordare che si può fare buona birra anche con due secchi, un’asta da imbottigliamento vecchio stile e un pentolone in bilico sui fornelli della cucina.