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Il colosso AbInBev lancia una nuova catena di Belgian Bar negli States

 

E’ una notizia che parte dal Belgio, che riguarda l’America, ma che coinvolge una filosofia birraria, e un modo di fare marketing (e cultura birraria). La protagonista è AbInbev, il “mostro birraio” per eccellenza, nato il 18 novembre 2008 dalla fusione del colosso birrario belga InBev con l’altro colosso americano Anheuser Busch. Una fusione che fece scalpore, per il prezzo e per i numeri: Anheuser fu acquistata da InBev il 14 Luglio 2008 per l’enorme cifra di 52 miliardi di dollari (70 $ per ogni azione); 300 le marche di birra che le due consociate, da quel momento, potevano “gestire” sul mercato birrario mondiale. Il quartier generale della società è a Lovanio (la prossima sede dello Zythos, fra l’altro), il giro d’affari è vorticoso ed imponente: 120.000 dipendenti sparsi in tutto il mondo, il 25% del mercato birrario nelle proprie mani, entrate per 36 miliardi di dollari nel 2010.

 

Un biglietto da visita importante di questo gruppo birrario (oltre che un redditizio segmento commerciale) è rappresentato dalla catena dei Belgian Beer Cafè, dei veri e propri bistrot, che ad oggi può contare su 55 punti vendita sparsi un po’ in tutto il mondo. Quattro in Belgio, diciassette nell’est europa (Bulgaria, Romania, Ucraina, etc..), altri in Giappone, molti in Australia e in Nuova Zelanda (in Italia non ce ne sono, al momento). Questi locali, gestiti in franchising, presumo, vogliono essere, per ABInbev una sorta di cartolina di presentazione del modo belga di fare birra e del modo belga di cucinare: menù con alcuni piatti tipici del Belgio, ma, soprattutto carta delle birre rigorosamente made in Belgium. Meglio, rigorosamente (com’è ovvio) made in portfolio birrario di AbInbev, “settore” Belgio. Quindi: Leffe, Stella Artois, BelleVue, Hoegaarden, Bush, Kwak, Barbar, Duvel Floris, Timmermans, Palm, Gauloise, Brigand, oltre a Chimay e Westmalle, che ABInBev distribuisce oltre i confini del Belgio. 

 

Dopo tutta questa necessaria premessa, la notizia: il gruppo birrario belga-americano ha annunciato di voler aprire, oltre i 55 già esistenti, altri 60 Belgian Beer Cafè, tutti in un solo posto, in America, nei prossimi tre, quattro anni (dei quali almeno una decina nell’area di New York/Boston). La notizia ha suscitato, in giro, più di un’alzata di sopracciglia, soprattutto dalla “parte di là” dell’Atlantico, protagonista, in questi ultimi decenni di una vera e propria rivoluzione culturale del mondo birrario, grazie al movimento dei craftbrewers e alla riscoperta del modo artigianale di fare birra. Alcuni hanno visto questo sbarco, in prospettiva, come una vera e propria intrusione, un modo di condizionare il mercato e il modo di bere delle persone; altri l’hanno interpretato come il tentativo, l’ennesimo e forse il più sfrontato, di ri-portare la birra “omologata”, “industriale” al centro dell’attenzione e dei consumi, dopo che il settore della birra artigianale, da quelle parti, ha eroso percentuali importanti di vendita ai grandi gruppi industriali. Ma soprattutto, in molti contestano il progetto sfruttando la stessa “mission” alla base del sistema-Belgian beer Cafè, che vuol essere dichiaratamente il “posto”, in giro per il mondo nel quale ciascuno può degustare una vasta gamma “of Belgian specialty beers”. La birra belga, attualmente, negli USA sta riscuotendo un grande successo: lo dimostra anche il fatto che moltissimi fra i birrifici artigianali americani, brassano le proprie birre rifacendosi alla secolare tradizione brassicola belga e ai suoi numerosissimi stili. Qualcuno teme che ABInBev voglia sfruttare questo trendy, questa buona reputazione, giocando però con carte non del tutto adeguate: molte delle 40 e più referenze birrarie presenti sulla carta delle birre dei cafè non appartengono, in effetti, al segmento delle birre “speciali”, ma piuttosto a quello delle birre più o meno industriali. Che sono effettivamente parte della storia produttiva della birra in Belgio, ma che non la rappresentano in toto, anche oggi, visto che anche in Belgio, i produttori “speciali” non mancano.  

 

E’ l’eterna battaglia fra Davide e Golia, fra chi si fa forza dei propri mezzi finanziari e della propria capacità di penetrazione sui mercati e chi vorrebbe invece che si riscoprisse che “piccolo è bello” e che si salvaguardasse il “gusto” delle cose semplici e artigianali. E’ così nel mondo della birra, attualmente; anche in Italia, in parte, viviamo una dinamica simile. Ma è così in tutto il mondo globalizzato, nel quale, quasi sempre, vince chi è più “grosso”.

 

di Alberto Laschi