Ideologia & Indipendenza. Due parole chiave per distinguere la birra artigianale italiana
Sin dagli albori del movimento artigianale italiano, metà anni ’90, io non volevo paradossalmente chiamare “artigianali” proprio le birre non filtrate e non pastorizzate dei nostri primi microbirrifici.
Lo trovavo, già allora, un termine troppo generico, quindi potete immaginare come lo possa tollerare oggi con gli scaffali dei supermercati sempre più invasi da birre da multinazionali sia dichiarate non filtrate che ispirate a stili mai nemmeno lontanamente presi in considerazione da loro, prima del crescente ed esaltante successo delle nostre.
Questa operazione di puro marketing, votata all’incremento del profitto, ha portato a una gravissima conseguenza che mi fa letteralmente imbestialire. Alludo evidentemente alla voluta, demagogica confusione attuata verso l’ignaro consumatore che si trova sul mercato bottiglie dalle eleganti fogge simili alle prime dei nostri microbirrifici, etichettate con nomi riferiti ad alcuni stili che erano legati, nell’immaginifico, solo alle nostre birre, come IPA, blanche, saison, tripel e così via. C’è addirittura chi chiama “birrificio” la propria storica birreria passata da decenni ad una multinazionale.
Molti di coloro che avevano troppo frettolosamente accolto con tripudio la legge 156/2016 che definisce la “birra artigianale” hanno ben presto preso atto che alle buone intenzioni, nel nostro paese, non corrispondano sempre buoni comportamenti. Se poi, come nel nostro caso, la legge viene partorita dalla politica e non dagli “addetti ai lavori” come l’associazione di categoria, le buone intenzioni non saranno, alle origini, così buone spianando la strada a comportamenti ancor meno buoni.
Leggendone il testo sembra, a prima vista, almeno per chi non sia del settore, attraente: “Si definisce birra artigianale la birra prodotta da piccoli birrifici indipendenti e non sottoposta, durante la fase di produzione, a processi di pastorizzazione e di microfiltrazione. Ai fini del presente comma si intende per piccolo birrificio indipendente un birrificio che sia legalmente ed economicamente indipendente da qualsiasi altro birrificio, che utilizzi impianti fisicamente distinti da quelli di qualsiasi altro birrificio, che non operi sotto licenza di utilizzo dei diritti di proprietà immateriale altrui e la cui produzione annua non superi 200.000 ettolitri, includendo in questo quantitativo le quantità di birra prodotte per conto di terzi”.
A parte, la fiducia nel vedere attuate le condizioni relative al processo produttivo, si sono fissati dei paletti interiorizzati dai produttori ma non certo dal consumatore abituale di birra industriale che, una volta casualmente scoperta una birra di un microbirrificio, con aromi e sapori fino ad allora sconosciuti, non vuole più tornare a quelle anonime, inodori e insapori votate all’appiattimento “standard” olfattivo e gustativo.
Proprio qui sta il punto che mi ha indotto a scrivere questo articolo. La multinazionale non potrà scrivere “birra artigianale” sulle sue etichette, ma tramite scritte come “non filtrata”, “regionale” e “di puro malto italiano” che interpretando gli stili che ho menzionato prima, il consumatore crederà di aver acquistato una birra artigianale italiana.
Ed ecco che finalmente riesco ad arrivare alle due parole chiave, quelle che, unite, possano rimediare a questo equivoco e tali parole altro non sono che “ideologia & indipendenza”.
Secondo l’autorevole Enciclopedia Treccani per ideologia si intende “il complesso delle credenze, opinioni, rappresentazioni, valori che orientano un determinato gruppo sociale” mentre per indipendenza si intende “una condizione non subordinata e comunque autonoma”.
Sposando questi due concetti basilari e applicandoli al nostro movimento artigianale avremo un buon antidoto contro le, ormai non tanto subdole, infiltrazioni delle multinazionali. Mi spiego meglio: a me non basta che una birra sia “buona”, a me interessa che sia anche prodotta da un birrificio indipendente, cioè appartenente al birraio stesso, alla sua famiglia o anche ad un’altra proprietà ma non a una multinazionale. Mi spiego ancora meglio e più direttamente: io non faccio eventi per chi non sia indipendente né includo, in quelli che conduco, birre del portfolio di una multinazionale.
Mi si potrà accusare di mancanza di obiettività ma, essendo genoano, dell’essere obiettivo me ne frego altamente mentre non tradisco mai la mia ideologia, lo stare dalla parte dell’artigiano e contro l’industria.
Non sopporto i miei autorevoli colleghi stranieri quando, lo fanno spesso, scrivono nei loro social messaggi del tipo “da più di un anno la microbirreria australiana Pinco Pallino è stata acquisita dalla multinazionale Tal dei Tali, ho recentemente assaggiato la birra che conoscevo e l’ho trovata immutata e della stessa ottima qualità, carattere e complessità”.
A quale scopo scrivere queste “belinate”? Lo sanno tutti che in breve tempo le ricette vengono stravolte cambiando addirittura gli ingredienti, le tecniche di lavorazione e i luoghi di produzione! A loro sostanzialmente interessa il brand e il successo e la reputazione che il microbirrificio si era duramente conquistati.
In passato il grosso acquisiva il piccolo per chiuderlo e levarlo di torno. Come veterano membro del CAMRA, ricordo le ironiche ma drammatiche t-shirt che, parafrasando le città e le date dei concerti dei Metallica o degli Iron Maiden, riportavano sulla schiena l’anno e i nomi delle piccole birrerie locali chiuse dopo le continue acquisizioni. Oggi le cose sono cambiate e la tendenza è quella di acquisire il piccolo con le finalità che ho sopra evidenziato.
Queste birre mantenenti il loro nome ma “riscritte” secondo la filosofia delle multinazionali vanno sugli scaffali della grande distribuzione nell’esclusiva nicchia delle “birre artigianali italiane” contribuendo a confondere il consumatore.
Come se non bastasse, il consumatore viene ulteriormente bombardato con falsi messaggi diventati pericolosi e dannosi luoghi comuni. Faccio qualche esempio concreto. Le Baladin è diventato così grande che ormai si possa considerare industriale e non più artigianale come quando cominciò. Nulla di più sbagliato. Sarà più grande di quelli piccoli ma rimane un piccolo birrificio che produce birra in modo totalmente artigianale, oltretutto completando quel percorso di filiera tutta italiana che Teo aveva nel DNA sin dai primi passi.
Quando un birrificio, per suoi meriti e sacrifici, raddoppia o triplica la propria capacità produttiva non cambia certo il livello della sua qualità. Io provocatoriamente e pubblicamente dico che in Italia non ci siano birrifici ma “goccifici” e quindi se un birraio prima faceva una goccia di birra ora ne fa due o tre! Proverei facilmente questa mia ironica affermazione portandovi nell’area di imbottigliamento di una grossa birreria industriale dove, mi dicono, in un’ora riempiano 80.000 bottiglie ma forse anche di più.
Altra affermazione, molto comune, che mi fa arrabbiare: “ci sono anche buone birre industriali”. Ma cosa c’entra? La parola ideologia è stata sotterrata? Non voglio bere birre industriali ma quelle dei nostri birrifici indipendenti, tutto qua. Diventa poi scoraggiante dover sempre ribadire ai “no-craft” che non tutte le nostre siano buone e che ce ne siano di pessime ma questo non è pertinente con la suddetta vocazione ideologica.
Nel 2012 mi collegai in diretta dagli studi RAI di Milano, leggermente provato dopo tre voli e 33 ore di viaggio dalla California, con la trasmissione “Occhio alla spesa”. Negli studi di Roma con amici come Teo e Leonardo c’era il presidente o il vice di Assobirra e quando il presentatore Alessandro Di Pietro mi ha chiesto per la miliardesima volta la differenza tra birre industriali e artigianali ho risposto al volo “non se ne può più di questa domanda, vi dico solo che piuttosto che una delle vostre bevo un bicchier d’acqua”.
Nel 2018 ero a Santiago del Cile per fare il giudice nella Copa Cervezas de America e per tenere una conferenza sul lambic. Fui anche invitato a un talk show a tre, con Stephen Beaumont dal Canada e Luc De Raedemaeker dal Belgio, sulla scena birraria dei rispettivi paesi.
A un certo punto non so come né perché si arrivò a parlare delle multinazionali e quando entrambi i miei colleghi sostennero che “industriali non vuol dire sempre birre cattive e artigianali non sempre buone” mi servirono un rigore a porta nuova, non aspettavo altro. Alla fine, fui attorniato da tutti i presenti, per lo più ragazzi e ragazze da tutto il Sudamerica, che mi dissero di essere tutti dalla mia parte!
Il grande Luigi Veronelli diceva che “il peggior vino del contadino è più buono del miglior vino industriale”. Ovviamente non è vero letteralmente parlando ma ideologicamente non fa una piega e io la penso allo stesso, identico modo, senza pretendere di avere ragione. Oltretutto il contadino è indipendente e quindi si torna alle parole chiave che, unite, rappresentano il mio credo e la mia chiosa finale: ideologia & indipendenza. Amen!