Guida o Bibbia? Obiettivi e criticità del BJCP

La classificazione degli stili formulata dal Beer Judge Certification Program (meglio noto con l’acronimo BJCP) ha acquisito una tale popolarità mondiale da dare origine a una curiosa sineddoche: molto spesso infatti si dice “il BJCP” intendendo proprio le style guidelines anziché, come sarebbe più corretto, il programma di studio. Il catalogo degli stili è infatti solo una, sia pur rilevante, parte, di un progetto nato negli USA nel 1985 nell’ambito delle competizioni per homebrewer e che si pone il fine di incrementare la conoscenza delle molteplici tipologie birrarie esistenti, formare giudici in grado di riconoscerle e valutarle e, infine, sviluppare standard comuni sia a livello di lessico e linguaggio che di strumenti e processi di classificazione e valutazione.

Da alcuni amato con la devozione che si tributa a un testo sacro, da altri pesantemente criticato, si tratta di uno strumento con ben precisi pregi e limiti da utilizzare, come tutto nella vita, cum grano salis. In effetti è possibile individuare alcuni limiti essenziali di cui occorre tenere conto quando si decide di utilizzare le linee guida del BJCP. Alcuni di questi sono legati al contesto in cui la classificazione è nata e sono ben chiari agli ideatori, che li dichiarano esplicitamente nel testo introduttivo al catalogo, altre sono imprecisioni derivate da un’impostazione decisamente “americanocentrica” e altri ancora sono connessi a una grande questione di fondo, che, amo definire filosofica e che concerne il sempre maggiore affanno con cui il concetto di stile si trova a rincorrere una realtà ogni giorno più sfaccettata e caleidoscopica.

Proviamo a procedere con ordine, iniziando dai limiti che gli stessi redattori delle linee guida BJCP riconoscono e scrivono in un decalogo che è la spina dorsale dell’introduzione: le guidelines sono linee guida, non un’enciclopedia degli stili, descrivono sinteticamente le caratteristiche più comuni di uno stile ma – traduco testualmente dagli autori – non sono confini tracciati con il filo spinato e non possono essere una ragione sufficiente per squalificare buone birre. Si può anche aggiungere, come correlato, che non basti studiare le guidelines per conoscere uno stile. Non posso che sottoscrivere, a questo proposito, quanto dettomi poco meno di un anno fa da Jos Brouwer, uno dei degustatori e giudici birrari più esperti al mondo: sono preoccupato perché incontro sempre più spesso giudici birrari che credono di conoscere uno stile solo perché ne hanno studiato a memoria le caratteristiche sul BJCP. Solo dopo una lunga serie di assaggi, meglio se nel Paese d’origine, si può dire di conoscere veramente uno stile.

Sono state formulate inizialmente per giudicare nei concorsi homebrewer e gli stili sono perciò stati definiti in modo piuttosto rigido per evitare sovrapposizioni tra l’uno e l’altro. Gli ideatori si dichiarano però consapevoli che molte birre, sia da homebrewing che commerciali, vadano a giocare negli spazi di sovrapposizione tra due o più stili. Il successo mondiale del catalogo ha fatto sì che alcuni microbirrifici usino le linee guida per riproporre stili antichi o per formulare le proprie ricette ordinarie: gli autori specificano come questo effetto collaterale da un lato li lusinghi ma dall’altro li spaventi e ricordano come ciò non sia mai stato un obiettivo dell’associazione. Gli stili cambiano nel tempo, così come come gli ingredienti; non tutte le birre in commercio rientrano nelle linee guida, che peraltro non definiscono tutti gli stili possibili e, soprattutto, le guidelines non sono i Dieci Comandamenti. Può apparire incredibile ma tutte queste affermazioni si trovano letteralmente scritte nel decalogo introduttivo e quindi non vi è alcun motivo di tradire le stesse intenzioni degli ideatori trattando le linee guida come un testo sacro.

Passando a limiti dovuti alla prospettiva americanocentrica, condivisa del resto anche dalle analoghe guidelines della Brewers Association, vi sono alcuni elementi che ritengo particolarmente significativo confrontare tra i due concorrenti. In primo luogo, trovo piuttosto farraginosa e dispersiva la classificazione dell’ultima versione del BJCP, in cui il criterio di origine geografica degli stili va a sovrapporsi al colore, al grado alcolico e al livello di amaro in modo non simmetrico per le varie aree geografiche. Perché, ad esempio, solo le birre europee non britanniche sono divise in “malty” e “bitter” oltreché per colore? Inoltre, classificare le Vienna, le Dortmunder/Export e le Keller come “bitter” e le Heller Bock come “malty” può condurre a numerosi fraintendimenti i giudici extraeuropei che non conoscano le diverse interpretazioni di questi stili. La Heller Bock di Meinel, per fare un nome, è decisamente più luppolata e orientata all’amaro della Keller di Riegele o della Augustiner Edelstoff, considerata in Germania un ottimo esempio di Export. In tal modo vengono anche separati due stili storicamente gemellati come Vienna e Märzen, dal momento che le seconde sono classificate come “malty”. Una divisione che riflette le interpretazioni craft statunitensi degli stili, non ciò che si trova oggi nei paesi d’origine. Anche l’inserimento delle Kölsch tra le European Pale Bitter può essere discutibile pensando ad alcuni produttori autoctoni come Früh o Mühlen, mentre far rientrare le Keller tra le European Amber Bitter per poi dividerle tra “pale” e “amber” porta ad una palmare contraddizione interna.

Anche nella categorizzazione degli stili anglosassoni da parte del BJCP si trovano alcune segmentazioni decisamente contestabili: perché le English IPA si trovano relegate tra le Pale Commonwealth Beer assieme alle British Golden Ale e alle Australian Sparkling Ale, due stili con cui condividono ben poco a livello organolettico oltreché storico, e non sono invece accomunate al gruppo delle IPA, che non reca esplicitamente l’aggettivo American nella titolazione ma racchiude tutti sottostili di origine statunitense, ovvero le varie American, Black, Red, Rye, White, Brown e Belgian IPA? In quest’ultima categoria, peraltro, vengono indicate quale esempi commerciali, oltre a produzioni americane, due birre belghe come la Hop-It di Urthel e la Chouffe Houblon che, a mio giudizio, al pari della Gouden Carolus Hopsinjoor di Het Anker, sono invece da definire Belgian Golden Strong Ale più luppolate nella norma: l’utilizzo di una maggiore quantità di luppolo da aroma su una birra dal DNA profondamente belga, come sono tutte le tre citate, è un concetto ben diverso dal realizzare una base IPA e fermentarla con lievito belga, come da descrizione delle Belgian IPA. Nel caso dei tre esempi sopracitati, infatti, l’accento è decisamente sul lato belga e del lavoro del lievito, con i luppoli che fungono da contrappunto aromatico, nel caso opposto, invece, l’accento è sul versante IPA e sulla prevalenza aromatica del luppolo, con il lievito che offre un aiuto sul piano degli esteri e, soprattutto, dell’attenuazione.

stili birrari

Il più macroscopico caso di “appropriazione indebita” riguarda però le Imperial Stout, che nell’elenco BJCP sono accluse nel capitolo American Porter and Stout mentre non vi è traccia di Imperial nel capitolo British Porter and Stout. Nella descrizione dello stile si dice che poi la loro nascita è inglese ma, a parte che una tale precisazione ha la stessa efficacia comunicativa di una smentita in quinta pagina di una notizia messa in evidenza in prima il giorno precedente, anche la giustificazione data a questa scelta, ovvero che le Imperial Stout avrebbero oggi la loro massima popolarità tra i birrifici di oltreoceano, è discutibile pensando alle numerose interpretazioni scandinave e ora anche est europee (polacche in particolare) di questo stile. In questo caso è molto più corretta la Brewers Association che, dividendole geograficamente, dà spazio sia alle British Style Imperial Stout che alle American Style.

Un curioso “buco” di entrambe le classificazioni riguarda poi le interpretazioni più moderne delle Belgian Blond: sia il BJCP che la Brewers Association includono infatti la categoria Belgian Blond Ale intendendo con essa birre a medio/alto grado alcolico (6,0% – 7,5% ABV per il BJCP, che le inquadra nel capitolo Strong Belgian Ale, 6,3% – 7,9% per la BA), prevalentemente maltate, caratterizzate dagli esteri e fenoli tipici dei lieviti di ceppo belga e poco luppolate. Il BJCP fornisce esempi commerciali in linea con questo profilo come Affligem Blond, Grimbergen Blond, Leffe Blond, Val-Dieu Blond e La Trappe Blond. L’osservazione che sorge immediatamente all’appasionato e conoscitore della scena locale è che birre che stanno rinnovando l’immagine dell’arte brassicola belga conquistando i palati di tutto il mondo come Zinnebir e Taras Boulba di De la Senne o le XX e XXX Bitter di De Ranke non trovano spazio in nessuna delle due classificazioni: dal punto di vista organolettico la casella ad esse più vicine è quella delle Trappist Single (ovvero le Enkel come Westvleteren Blond, Westmalle Extra o Chimay Doréé) presente sul BJCP, ma l’identità luppolata di queste birre, ormai diventate a loro volta dei classici, va decisamente oltre il “medium-low” presente nella classificazione.

Questa lacuna ci porta all’ultimo livello della riflessione, ovvero alla sempre più difficile capacità di uno stile di rappresentare una realtà empirica che è ogni giorno più magmatica, liquida e contraddistinta dalla creatività dei birrai. Mi trovo spesso a pensare che lo stile birrario sia un concetto simile ad un’Idea platonica: un principio perfetto e immutabile di cui le realtà sensibili non sono altro che pallide e imperfette copie. Qual è la Pils o la Saison perfetta? Dieci degustatori e appassionati daranno probabilmente altrettante risposte diverse e qualcuno risponderà semplicemente “non esiste”. Quante volte in un concorso birrario incentrato sugli stili un giudice si sente di concedere il punteggio massimo a una birra in gara? Praticamente mai. Credo personalmente che il concetto di categoria, più ampio, empirico e aristotelico, sarà sempre più la chiave di volta per tratteggiare le classi di birre nelle iscrizioni ai grandi concorsi nazionali e internazionali e anche l’ispirazione metodologica per guidare i giudici a formulare valutazioni più razionali ed equilibrate senza penalizzare il legittimo ricorso alla creatività e sperimentazione da parte dei birrai. Le linee guida del BJCP e della BA, come tutti i cataloghi sinottici, saranno sempre strumenti utili per verifiche e consultazioni quotidiane nonché per aiutare a dirimere qualche dubbio in sede di valutazione di una birra ma non possono e non devono essere delle celle di contenzione in cui fustigare birre magari eccellenti che hanno l’unico torto di deviare dai parametri, sintetici e sommari, in essi contenuti.

 

L’articolo completo è pubblicato sul nr 38 di Fermento Birra Magazine