Degustare una birraFocusIn vetrina

Giudici da bancone: perché non si deve confondere l’assaggio professionale con la bevuta

Viviamo tempi in cui il sano spirito critico pare essere stato decisamente surclassato da una malsana coazione a giudicare. È una frase troppo drastica? Non credo, se consideriamo quanto lo spirito critico, lodevole e salubre esercizio di intelligenza, richieda una ben fondata conoscenza del tema su cui va a posare lo sguardo e una conseguente capacità di argomentare il proprio punto di vista sulla base di dati il più possibile oggettivi e condivisi.

giudice birra Fotor

Viceversa, la rete e i social network hanno sempre più incoraggiato e catalizzato una deriva di pensiero e di azione che porta milioni di persone a esercitare quotidianamente giudizi manichei, poiché basati sulla dicotomia del “mi piace/non mi piace” o “favorevole/contrario” indotta dalla struttura logica di questi mezzi di comunicazione, e che più che soggettivi possono essere definiti addirittura solipsistici perché l’individuo, a prescindere da quali siano le sue reali competenze e conoscenze, si erge a giudice monocratico e universale di tutto ciò che lo circonda.

Giorni duri per l’etica linguistica di Ludwig Wittgenstein e la sua aurea massima “di ciò di cui non si può parlare si deve tacere”: assistiamo, al contrario, al grottesco spettacolo di persone che impiegano una fetta considerevole del proprio tempo quotidiano a vergare e spedire in rete decine e decine di recensioni come se fosse un lavoro necessario o una missione a favore dei propri simili. Dal bar in cui bevono il primo caffè mattutino all’ufficio postale in cui vanno a spedire una raccomandata fino al casello autostradale in cui transitano magari una sola volta nella vita, nulla e nessuno sfugge alla lama dei loro giudizi quasi sempre approssimativi e poco fondati e non di rado livorosi o infantilmente sarcastici.

social birra

Il fenomeno è particolarmente impattante nel settore della ristorazione e dell’ospitalità dove, complice anche il profluvio di talent show e trasmissioni televisive dedicate alla cucina e all’hotellerie, individui che faticherebbero a scongelare dei sofficini o che non sanno distinguere l’olio extravergine d’oliva dal burro fuso (per citare un episodio che causa ancora crisi ipertensive a un mio amico ristoratore) si sentono in diritto e dovere di diffondere in rete le loro inappellabili sentenze su piatti, abbinamenti e presentazioni che non sarebbero in grado non solo di replicare ma nemmeno di ideare.

In trepidante attesa del lancio in TV di format come Masterplumber. Elettricisti da incubo e Il più grande carpentiere che devieranno un po’ la pressione su altre categorie professionali, è il momento di chiedersi: il mondo della birra artigianale è, rispetto a tutto questo, un’isola felice?

Ovviamente no: tutti noi abbiamo un amico o un cliente esponente del geekismo più estremo che avrà commentato un viaggio a Bruxelles o Bamberga sentenziando sì, tante birrerie storiche e interessanti ma nessuna che proponesse una pastry stout con cui chiudere la serata. E proprio mentre scrivo, un collega, titolare di uno dei più consolidati pub di riferimento in Italia, segnala con rammarico di come il recensore seriale di turno gli abbia affibbiato una stella lamentando che nella “vasta scelta di birre” promessa all’ingresso del locale non trovasse spazio una nota etichetta tedesca confezionata in bottiglia verde e prodotta dalla più grande multinazionale birraria al mondo.

Prendendo lo spunto da questo episodio proviamo a riflettere più nello specifico circa la valutazione non di un locale ma di una singola birra e ad osservare lo iato che può aprirsi tra il giudizio di un esperto o addetto ai lavori e quello di un consumatore comune: vi è sempre un incolmabile canyon di competenze ed esperienze a dividere le due parti o è possibile, almeno a volte, lanciare un ponte tibetano o una semplice liana e trovare un terreno comune di confronto?

L’imprescindibile punto di partenza, che abbiamo già tra le righe suggerito, è la basilare distinzione, peraltro comune a qualunque ambito in cui si possa esprimere un giudizio che è, in senso lato, estetico tra i fattori oggettivi e quelli soggettivi.

In altre parole: è legittimo che una persona preferisca vedere un cinepanettone rispetto a un film di Kubrick o di Nolan o tragga maggior piacere personale dai romanzi della collezione Harmony che dalle opere di Guido Morselli o di Dürrenmatt?

Certamente sì, quando però la parola passa a un critico cinematografico o a un docente di letteratura e questi, con le conoscenze tecniche, il lessico specialistico e gli strumenti concettuali che fanno parte della sua “cassetta degli attrezzi”, spiega con dovizia di particolari perché quel film o quel romanzo abbiano un valore artistico intrinseco superiore ad un altro, non è legittimo che il fan dei cinepanettoni o il lettore di Harmony insultino e sbertuccino l’esperto irridendo la presunta boria dei professoroni (termine oggi tristemente di moda in chiave canzonatoria e dispregiativa) a meno che egli non compia un percorso di studi analogo a quello dell’esperto e sia dunque in grado di argomentare in modo dettagliato e il più possibile oggettivo la propria diversa visione.

birra bicchiere degustazione 1

In ambito brassicolo funziona esattamente allo stesso modo: è del tutto ammissibile avere come vizio personale la bevuta estiva del radler premiscelato di qualche marchio industriale o quella notturna della strong lager da 14% di alcol in volume presa all’hard discount, ciò che non è ammissibile è pretendere di poter impunemente asserire che l’una o l’altra possano essere ritenute da qualcun altro o addirittura dall’intera comunità di bevitori la miglior birra del mondo o anche solo una grande birra, ovvero credere che una propria preferenza soggettiva possa ambire a un valore oggettivo.

Ma vediamo quali sono i fattori oggettivi relativi alla valutazione della birra. Partiamo dall’assenza di difetti, diagnosi che può essere accuratamente compiuta solo da coloro che conoscano e padroneggino adeguatamente le possibili problematiche gustolfattive che a volte affliggono la nostra bevanda preferita. Il tema delle difettosità è infatti delicato e complesso, anche sul piano chimico, e può essere sensatamente affrontato solo dopo aver alle spalle una solida formazione di base sulle materie prime e le tecniche di produzione. Il motivo per cui quando qualche collega publican mi chiede “organizziamo una serata sui difetti?” pongo mille distinguo e sottolineo come vada riservata a un pubblico già formato e sufficientemente esperto, non è certo per mantenere delle conoscenze tecniche nelle “segrete stanze” riservate agli “iniziati” ma semplicemente per non scagliare il peso di nozioni che richiedono non banali prerequisiti e tempi medio-lunghi di assimilazione. Una conoscenza che deve essere necessariamente supportata da un congruo numero di assaggi, e che non può ricadere sulle spalle gracili di neofiti birrari correndo il rischio di spegnerne l’entusiasmo o di trasformarli in folli “cacciatori di difetti” destinati a parlare spesso a sproposito trovando problemi dove in realtà non ve ne sono o mancando il vero bersaglio: a volte infatti il difetto non è dovuto al lavoro in birrificio ma allo stoccaggio da parte del distributore o al servizio da parte del pub e capire dove sia occorso il problema non è cosa che si impari in una o due serate didattiche.

bicchieri birra 34

In secondo luogo, l’aderenza allo stile o alla tipologia di riferimento, se essi sono dichiarati. Nel caso, frequente nel mondo artigianale e ancor più in Italia, di birra in “stile libero”, il fattore dirimente diviene la coerenza con il progetto del birraio circa il bilanciamento complessivo e le modalità di fruizione della birra in questione: in altre parole se l’artefice pensa di aver creato una birra facile da bere in tutti i momenti della giornata e nel bicchiere abbiamo una sorta di Belgian Dark Strong Ale da 8% di alcol in volume significa che il birraio ha le idee un po’ confuse su cosa significhi “session beer” per il resto dell’umanità o che qualcosa è andato storto nel corso dell’elaborazione della ricetta o della sua esecuzione.

Ho posto questo elemento in seconda posizione rispetto alla presenza di difetti non a caso, perché anche una birra che non rifletta appieno il pensiero del birraio può essere priva di problemi oggettivi e quindi proponibile sul mercato e godibile per i consumatori purché correttamente inquadrata e comunicata. Mi è capitato recentemente di assistere con una consulenza un giovane e promettente produttore i cui due birrai mi sottoposero una Double IPA dicendomi con rammarico che non rispecchiava appieno il loro progetto (volevano farla in stile West Coast, ovvero molto secca e amara, e invece la birra era una Double IPA più vecchio stile, con una certa rotondità di corpo e una percepibile componente maltata), non si confaceva al nome e alla campagna di comunicazione che avevano concepito e pensavano addirittura di buttare la cotta. La birra, però, non aveva alcun difetto oggettivo ed era del tutto godibile come Double IPA muscolare: li invitai pertanto a non farsi travolgere da quella che era una visione puramente soggettiva ed emotivamente determinata dalla delusione rispetto alle proprie aspettative andando a sprecare una birra di buona qualità, che avrebbe sicuramente avuto un suo mercato, e di metterla senza timore in vendita con un nome diverso da quello pensato continuando nel contempo a lavorare sul progetto di una Double IPA più secca. Mi ha fatto molto piacere ricevere, dopo un paio di mesi, un loro messaggio di ringraziamento in cui mi comunicavano come la cotta fosse andata a ruba e quella birra avesse avuto addirittura recensioni leggermente più alte rispetto alle altre loro referenze sulle piattaforme di rating. In questo caso vi è stato però, in un certo modo, un incontro di prospettive: se l’assenza di difetti mi era chiara grazie al background di studi ed esperienze come degustatore, l’esperienza da publican mi ha invece permesso di indossare i panni del consumatore ed essere certo che quella Double IPA avrebbe incontrato il gusto di molti clienti.

Del resto in uno dei più importanti concorsi birrari mondiali, l’European Beer Star, ai giudici è raccomandato di assumere il punto di vista del consumatore. Un consiglio importante e null’affatto banale perché una volta sgombrato il campo dalle birre con problemi oggettivi è bene discernere, specie in tipologie brassicole destinate al largo consumo, tra gli esemplari che colpiscono di più i sensi e l’immaginazione facendo bella figura in un contesto concorsuale, dove gli assaggi sono di proporzione molto ridotta, e quelle birre che invece danno il meglio di sé alla distanza. In altre parole i giudici si devono chiedere “quanto sarei contento di aver ordinato e pagato questa birra in un pub? Ne ordinerei una seconda?”

evento brindisi

Per il consumatore, ma anche per l’esperto (ecco un altro terreno di incontro!) quando dismette gli abiti professionali ed esce a godersi qualche sana pinta o boccale in compagnia degli amici, il fattore soggettivo e ludico è ovviamente preponderante. Vi è una profonda distinzione psico-antropologica tra il bevitore che si affeziona ad una ben precisa tipologia o a un singolo produttore e trascorre serate ordinando ricorsivamente sempre e solo la sua birra preferita e quello che, all’opposto, ama esplorare vari territori gustativi e desidera assaggiare quasi ogni volta qualcosa di nuovo, ma nessuno dei due sceglierà dal menù uno stile birrario che sa di non amare o un birrificio che mai gli ha dato soddisfazioni giusto per curiosità tassonomica.

Su questo punto vi è però la parziale eccezione rappresentata dai recordman delle applicazioni di rating birrario: a loro può effettivamente capitare di scegliere anche stili o produttori da cui già sanno che non trarranno grande piacere solo per aggiungere una riga al database degli assaggi, in questo caso però siamo in un territorio di confine perché molti di questi, non di rado pittoreschi personaggi, sono in qualche modo professionisti del settore, perché magari lavorano come publican o distributori, o tali si ritengono in qualità di influencer dall’alto (o, più spesso, dal basso) del numero dei follower delle loro pagine Instagram o blog.

 

Quando si indossa la t-shirt o la polo della giuria di un concorso birrario o si è membri di un panel convocato da un birrificio o comunque si stanno fornendo le proprie competenze per una consulenza tecnica ovviamente il discorso si ribalta completamente e la parola d’ordine diventa una sola: oggettività. È un concetto pregno, niente affatto banale e nemmeno innocente, né sul piano etico che su quello epistemologico, e che ha ricadute pratiche numerose e sfaccettate. In primo luogo, ovviamente, non è professionalmente serio farsi influenzare dalle proprie preferenze personali in materia di stili e tipologie birrarie. Anche gli stili che piacciono meno o non piacciono affatto, infatti, vanno analizzati e descritti al meglio possibile e per farlo è necessario conoscerli in modo adeguato e non solo sul piano teorico: ciò implica che il degustatore professionale debba, periodicamente, “sacrificarsi” ad assaggiare e bere tipologie che non ama (o addirittura che cordialmente detesta) per essere adeguatamente aggiornato sulle evoluzioni dello stile e farsi trovare pronto nel momento in cui dovrà offrire il suo naso e il suo palato per un concorso o una consulenza.

Se durante i concorsi si degusta alla cieca eliminando in tal modo il bias cognitivo legato alla conoscenza del produttore, ciò non è ovviamente possibile quando si lavora per un panel o per una consulenza commissionati da un singolo birrificio. Essere oggettivi significa in questo caso anche non essere influenzati dalla fama, positiva o negativa, che la birreria porta con sé oltreché, naturalmente, dall’istintiva simpatia o antipatia che il committente ci suscita o da eventuali legami di amicizia pregressa con esso. Non si rende infatti un buon servizio ad un amico se, per timore di urtarne la suscettibilità, si valutano le sue birre in modo più positivo di quanto meriterebbero lesinando le critiche e mascherando i giudizi sotto la coltre di quintali di eufemismi.

Quest’ultimo richiamo ci conduce ad un altro nodo fondamentale, ovvero il linguaggio: se al consumatore è consentito esprimere il suo giudizio soggettivo anche con il semplice e basico mi piace/non mi piace da cui siamo partiti all’inizio ed egli si può anche permettere, nei limiti dell’opportunità e della buona educazione, di utilizzare espressioni fantasiose e colorite corredate da descrittori molto personali, chi ha il compito di valutare professionalmente una birra deve redigere descrizioni oggettive utilizzando un lessico condiviso e comprensibile tanto alla committenza quanto agli eventuali uditori o lettori.

Proprio nel precedente numero di Fermento Birra abbiamo sviscerato le diverse valenze che uno stesso termine può assumere se pronunciato da un cliente o da un publican: ancor più quanto si tratta di valutazioni e giudizi è fondamentale che emittente e destinatario condividano la semantica di base, ovvero siano concordi sul significato da attribuire alle parole utilizzate per descrivere ciò che si trova nel bicchiere.

Nessuno nel mondo birrario ha ancora effettuato una codifica ufficiale del vocabolario tecnico come ha fatto, ad esempio, A.I.S per il vino elaborando ventuno descrittori e centosedici termini ufficialmente riconosciuti, ma da più parti emergono richieste circa l’esigenza di provvedere anche in ambito brassicolo ad un analogo sforzo classificatorio. Vero, probabilmente si perderebbe un po’ della magia naïf che ha sempre accompagnato le birre, ma la didattica di settore ne verrebbe sicuramente aiutata.

Nel frattempo, dando per scontata la necessità di non utilizzare mai, anche di fronte a una birra davvero pessima, termini offensivi e svilenti il lavoro altrui, è altamente consigliabile limitare il ricorso alla tecnica open mind (divertentissima e molto istruttiva, ma che va utilizzata in occasioni appositamente dedicate) e a descrittori troppo legati alla propria memoria gustolfattiva strettamente individuale, sforzandosi invece di usare una tecnica descrittiva a cerchi concentrici. Infatti, partendo dalle grandi famiglie aromatiche (fruttato, floreale, speziato, etc…) si avrà più facilmente un terreno comune su cui iniziare a tratteggiare la mappa descrittiva della nostra birra, mentre al secondo passaggio si cercherà di definire se il fruttato che sentiamo è acerbo o maturo e se percepiamo sentori di frutta a polpa bianca o a polpa gialla o ancora di bosco o tropicale, e infine, come ultimo passo, potremo provare a individuare un singolo frutto che il nostro bicchiere ci evoca.

Oltre ad essere maggiormente intersoggettivo un simile approccio è particolarmente proficuo nella didattica perché evita il comprensibile smarrimento del neofita di fronte a descrittori troppo specifici ed elaborati (tipo “sella del cavallo il primo giorno di primavera dopo una notte di pioggia”) che suscitano, di norma, due possibili reazioni, entrambe di segno negativo: o una forma di frustrazione perché, malgrado la fisiologia ci dica l’esatto contrario, si ritiene il degustatore esperto una sorta di superman dei sensi con doti olfattive e gustative innate irraggiungibili ai comuni mortali, oppure un’ancora più spiacevole sensazione di essere presi in giro da un prestigiatore dei bicchieri che si inventa evocazioni fantasiose sparandole il più possibile grosse.

Perché degustatore/giudice e consumatore più o meno affezionato sono due ruoli diversi e tali sono destinati a restare, ma un bicchiere colmo di birra è il migliore invito a trovare un comune terreno di gioco e una modalità condivisa per commentare le emozioni che la nostra amata bevanda ci suscita.