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Firenze chiama Londra: Ribollita e Bitter

Alcuni piatti, più di altri, sanno raccontare l’identità di un popolo; sia essa intesa come nazionale o specificamente regionale. Questi piatti riassumono i tratti-tipo dell’idea di quelle genti in poche pennellate sintetiche, che nondimeno riescono a tracciarne un tutto tondo voluminoso ed esauriente, ricco di quegli attributi pensabili per gli indigeni del territorio da cui scaturisce. Esempio dei più calzanti, per raccontare cosa sia un piatto identitario e quanto in profondità possa svelare i segreti dell’anima di un luogo e dei suoi abitanti, è per me la Ribollita toscana.

Piatto povero e di origini “oscure”, in quanto di genesi incerta e probabile concepimento culinario collettivo, frutto delle precise evoluzioni storico-geografiche e sociologiche della Toscana dal Millecento ai primi del Secolo Breve più che dell’atto di volontà o scienza di un soggetto individuale; la zuppa ritrae in modo impressionantemente vicino l’idea che abbiamo della toscanità: piatto dritto e guitto, rustico ma furbo e gentile come i Chichìbio boccacceschi, fuoriuscito direttamente dalle terre generose delle crete senesi e fiorentine, colorata e sapida battuta di spirito alla Mascetti che funziona tanto nella bocca blasfema del contadino che in quella della massaia matronale. La ribollita sta bene col vino spremuto su quei colli (e nel nostro caso, con la birra), e sospinta dal gustoso ingegno del povero, di calibro leonardesco, viene recuperata volentieri dal padrone di medicea discendenza, poi nel vernissage radical-agricolo di Gucci vestito.

Qual è quindi la data di nascita della Ribollita, quale il suo luogo? Come per quanto riguarda il dove non possiamo che azzardare un vago “tra Firenze, Arezzo, e la piana di Pisa”, così per il quando è impossibile affibbiare il compleanno ad un piatto tanto diretto. Cosa c’è infatti di più immediato e potremmo dire naturale del recupero del pane secco? Cosa di più primordiale, povero e universale di certi avanzi di verdure bolliti? Di certo piatti analoghi alla ribollita, nati dall’esigenza primaria di non sprecare risorse preziose e serviti senza un nome se non con quello di “minestra”, esistevano già nel Medioevo feudale e nell’epoca delle Signorie – ed è con ogni probabilità a queste pratiche minime di cucina, di sussistenza routinaria che possiamo immaginare di ascrivere la paternità del nostro piatto; seguendone il filo a ritroso attraverso le nebbie del tempo. Se quindi è impossibile sancire il momento preciso in cui la ribollita in forma attuale si sia cristallizzata fino a diventare presenza consueta sulle tavole, dotata di proprie caratteristiche imprescindibili che la elevarono e la distinsero per personalità dal marasma delle minestre di pane, possiamo di certo utilizzare il metodo bibliografico per stabilire la data in cui nasce la ribollita “moderna”; ossia certificare la sua nascita editoriale, quella della prima codifica in un ricettario. Se il nome “ribollita” compare per la prima volta nel 1910 ne L’Arte cucinaria in Italia di Alberto Cougnet, la ricetta emerge per la prima volta in iscritto, con formulazione pressoché identica ma nome diverso – “Zuppa toscana di magro alla contadina” – già ne La scienza in cucina e l’arte di mangiar bene del padre nobile della gastronomia italiana Pellegrino Artusi. Siamo nel 1891.

Ma quindi qual è, la ricetta “originale” della ribollita toscana? Una dovuta premessa è che sia un errore – o quantomeno una velleità dei nostri tempi moderni, assetati di autenticità e di un passato che temiamo di smarrire – pensare la tradizione come corpus unico, immutabile e atavico: la tradizione è un’innovazione che ha avuto successo, come amerebbe dire Carlo Petrini; e in quanto tale, in ambito gastronomico, è suscettibile delle innumerevoli e continue piccole “innovazioni” e modifiche apportate a concetti di massima dalle cuoche, e dai cuochi, a livello locale o addirittura familiare. Non esiste un’unica variante delle ricette che percepiamo come tradizionali, ma ne esistono tante quanti sono gli interpreti che le portano a tavola: questo per lo meno fin quando i piatti non vengono adottati da specifici consorzi, confraternite e camere di commercio, che sovente si eleggono custodi di una presunta (ma raramente provata) autenticità fino ad annullare gli spazi di lasco delle libertà di reinterpretazione, favorendo invece un’espressione univoca, e secondo la loro visione, autografa, dei piatti tipici. Tale modalità di “difesa” manca – per fortuna – nel caso della Ribollita, che quindi persiste nel suo essere piatto di recupero e di opportunità, ben incline ad assecondare lo smaltimento di eventuali vegetali avanzati in frigorifero e parimenti sopporta bene la defezione di alcuni ingredienti accessori; senza i quali se ben preparata se la cava comunque in modo egregio.

Nella galassia di verdure, piante aromatiche e possibili varianti che entrano a far parte delle versioni più ricorrenti di ribollita (verza, bietole, zucchine, patate, rosmarino, timo, cipolle, carote, aglio, pomodori freschi, pelati o in salsa, peperoncino, sedano, prezzemolo, porri) tutti gli ingredienti sono potenzialmente utili, nessuno è indispensabile. Ciò che è invece assolutamente indispensabile, ossia il nucleo attorno al quale gli altri ingredienti ruotano e che definisce cosa sia “ribollita” e cosa invece solo “minestrone”, è una triade di elementi immancabili. Questi sono, ovviamente, il cavolo nero toscano, che tradizione vuole debba “aver preso il ghiaccio” almeno una volta così che le foglie risultino più tenere, i fagioli bianchi (cannellini o, ancora meglio, zolfini), il pane vecchio, possibilmente sciapo. A questi, va aggiunto l’olio extravergine di oliva toscano aggiunto a crudo, ed infine un elemento del processo di preparazione che conferisce il nome alla pietanza, oltre che la sua texture unica: appunto la doppia cottura della minestra, prima bollita, poi ri-bollita. Fermo restando allora che il nucleo sia il cuore immutabile del piatto, e ciò che gli gira attorno più un suggerimento di preparazione che un diktat culinario, proveremo adesso a fornirvi una ricetta di massima che possa porgervi il cuore della campagna toscana in punta di cucchiaio.

La ricetta

Ingredienti per 4 persone: 300 grammi di fagioli bianchi secchi (cannellini o zolfini), 400 grammi di cavolo nero toscano, 400 grammi di pane sciapo raffermo, mezza verza, un mazzo di bietoline/erbette, 5 pomodori datterini, due patate medie, due carote, una costa di sedano, una cipolla bionda, uno spicchio d’aglio, rametto di rosmarino, rametto di timo, olio extravergine d’oliva robusto, sale, pepe.

Ammollare i fagioli in acqua fredda per 12 ore, o comunque per un tempo non inferiore alle 8, avendo cura di sostituire l’acqua almeno una volta. Lessare gli stessi in acqua fredda, aggiungendo lo spicchio d’aglio schiacciato, qualche grano di pepe e il rosmarino. Una volta cotti, salare, eliminare gli aromi e riservare il liquido di cottura. Passare al setaccio metà dei fagioli, o frullarli con un po’ della loro acqua. Preparare un battuto di cipolla e sedano e lasciarlo imbiondire a fuoco dolce in olio extravergine,  idealmente in una pentola di coccio, salando leggermente. Al momento che il battuto sia sul punto di prendere colore, aggiungere le patate e le carota tagliate a dadi e il cavolo nero pulito e grossolanamente spezzato. Far soffriggere appena, finché la verdura inizi a rilasciare i suoi liquidi, poi bagnare con abbondante brodo di cottura dei fagioli e portare a bollore; unendo a quel punto la purea di fagioli ottenuta in precedenza ed i fagioli interi, oltre che i pomodorini incisi a croce, la verza affettata in taglio spesso e le biete. Lasciar cuocere a fiamma bassissima per circa due ore. A cottura ultimata, aggiungere il pane “sciocco” raffermo affettato in pezzi da circa 2 cm e lasciar sobbollire ancora per dieci minuti; aggiustare di sale e pepe, aggiungere abbondanti foglioline di timo, poi spegnere il fuoco ed aspettare il completo raffreddamento. In questa fase il pane assorbirà i liquidi della zuppa fino a disfarsi parzialmente, rendendo insieme all’acqua dei fagioli e agli amidi della patata la consistenza “soda” tipica del piatto. Prima di consumare, riportare a bollore e scaldare la minestra per circa dieci minuti. Servire irrorata con abbondante olio extravergine dosato a crudo, peperoncino e cacio grattugiato a piacere.  Varianti: è possibile unire delle cotenne di maiale in cottura insieme ai fagioli, come nella versione proposta dall’Artusi, o come in un vizio tipico delle minestre all’italiana inserendo nella fase di prima bollitura una crosta di Parmigiano Reggiano. Nulla vieta inoltre di arricchire la vostra ribollita con zucchine o fagiolini – pur tenendo presente che la vocazione del piatto è tipicamente invernale, e che questo andrebbe realizzato con vegetali di stagione: meglio forse orientarvi, nelle vostre varianti creative, verso zucche, porri e cavolo cappuccio, o cavolfiori. A questo stesso proposito, i pomodori ovviamente non sono propri del tardo autunno né dell’inverno: potrete pertanto sostituire, in base al vostro grado di ortodossia, i datterini freschi di serra con qualche pelato spezzettato.

Un piatto rustico e contadino necessita una birra da working class: abbineremo la nostra pietanza toscana, gettando un ponte ideale tra le campagne del Chianti ed il Devon, alla bevuta “proletaria” per eccellenza; quella bitter ale che tanto propriamente figura nell’immaginario rurale della vecchissima Albione. In particolare guarderemo alle Best Bitter, se non addirittura alle Extra Special, dotate di un grado alcolico capace di sostenere la robustezza del piatto meglio di quanto farebbero le sorelle minori Ordinary Bitter; delle quali pur mantengono la grande beva da dissetamento dopolavoro. L’abbinamento, oltre che a livello concettuale, si rivela ideale sul piano gustativo; con il lieve biscotto/nutty da malti che si raccorda alle note di cereale del pan zuppo rivestendole di nuances integrali, le sensazioni terrose, polverose e floreali della luppolatura british che incontrano il verde cupo e sapido del piatto, la wateriness del sorso che sciacqua il palato dalle intensità del boccone mentre il finale leggermente secco asciuga gli ultimi residui di umidità, ed il delicato amaro finale fa risaltare nel retroboccale le peculiarità vegetali del cavolo nero. Stile a lungo trascurato dai birrai italiani, sta vivendo oggi un notevole rientro in auge grazie ad un più generale aumento dell’attenzione nei confronti delle birre “da bevuta”, con qualche esempio notabile: tra tutte, menzioniamo la Barry’s Bitter di Hilltop, la Febbre a 90º di Birra Perugia, la Borgna di Filodilana, la Grasshopper ESB di Alveria e Mosaik, la Meridiano Zero di Birrificio del Forte, la Old Jorge di Eastside.