Il fascino discreto delle Light Beer
Mi piacciono le India Pale Ale bilanciate e ben luppolate. Mi godo la complessità delle imperial stout invecchiate in legno. Sono felice quando posso assaporare una tripel belga stupendamente complessa. Se mi offrite una altbier o una maibock alla tedesca vedrete un bel sorriso stamparsi sul mio volto. Non c’è insomma fine al godimento che può darmi la creatività del mondo artigianale ma, in tutta onestà, devo ammettere una cosa: quando penso alla mia più bella esperienza birraria in Inghilterra mi torna in mente l’ormai scomparsa bitter del birrificio Brakespear a Hanley on Thames e le meravigliose sessioni multi-pinta che mi ha regalato.
Una birra sotto i 4 gradi che dispensava profumi a non finire. In Irlanda ho poi assaggiato più di una stout alla spina che non superava la stessa gradazione; in Germania le mie più appaganti esperienze sono legate ad helles e keller fatte localmente e alla vecchia maniera, spesso di poco al di sopra di 5 gradi; in Scozia ricordo pinte su pinte di ale “da pochi scellini” [in Scozia le birre venivano tassate in base al grado alcolico, dunque minore era il costo, minore era la presenza di alcol]. Tutte birre memorabili, spettacolarmente fresche e relativamente basse di gradazione: per di più ne ho bevuto un buon numero di pinte (o di litri..) e ricordo ancora perfettamente l’ambiente, i commensali, il cibo e le conversazioni.
Durante i miei viaggi in America mi sono invece deliziato con luppolatissime imperial e birre speciali massicce, fruttate e complesse. Giro spesso per birrifici, ma ancora oggi quando voglio ambientarmi e sono assetato mi ritrovo con poche scelte. Con “ambientarmi” intendo avere la possibilità di bermi due o tre birre durante un pasto, fra una chiacchiera e l’altra: magari poi le birre diventano quattro, un tempo anche cinque, e la scelta cade così su ale e lager a bassa gradazione. Tranquilli, il mio palato non si è indirizzato verso quelle sciape cugine della birra chiamate “American Light Lagers”. Quello che cerco sono session beers piene di gusto e profumi, come quelle che tanto spesso mi è capitato di incontrare in Europa: bitter, helles, mild e stout che abbiano un giusto bilanciamento di luppoli, malto, sapore, carattere, complessità e, sì, anche di alcol. E’ vero, sto invecchiando, ma voglio continuare a godermi le birre, sono spesso assetato e normalmente amo bere più di un bicchiere. Purtroppo però quando guardo i menù di locali orientati alla qualità la maggior parte delle volte trovo pochissime, se non addirittura nessuna session beer tra cui poter scegliere. E anche quando ci sono ad esempio bitter in stile inglese non sono mai prodotti che un birrificio si vanta di realizzare: la ribalta resta riservata alle massicce ales o alle lager speciali.
Che fare dunque della mia sete? Che ne è dell’orgoglio di brassare una ale da 4 gradi complessa, ricca di luppoli e spiccatamente maltata? E’ vero, tantissimi bevitori amano e ricercano ormai birre più forti e importanti al punto che molti birrifici non riescono a soddisfarne la domanda. Ma non c’è nulla di cui vergognarsi nel proporre birre a bassa gradazione, perché molte culture brassicole sono state fondate attorno a session beer di carattere. Personalmente continuerò a ricercare la quintessenza in una semplice bitter, in una helles o una keller di piccoli birrifici. Ho bevuto molte stout dello Utah da 4 gradi alcolici con più carattere di tante loro versione ad “alti ottani” conosciute a livello internazionale. I birrai stanno dunque allontanandosi dal concetto di gusto e diversità in favore del “grande, grosso e forte”? Stiamo forse abbandonando le nostre radici birrarie? La questione resta aperta. Negli ultimi dieci anni ho scritto diversi articoli su tale argomento, notando anche qualche cambiamento: il numero delle birre di carattere e a basso contenuto alcolico è cresciuto, e pure il mercato si sta sempre più interessando a questo genere di prodotti. Inutile sottolineare come la cosa non possa che farmi piacere, e come a me spero anche a molti altri.
articolo apparso sul numero 11 di Fermento Birra Magazine
di Charlie Papazian