Degustare una birraIn vetrina

Difetto o non difetto: come riconoscere le problematiche della birra

Quante volte ci è capitato di assaggiare una birra con altri appassionati e di trovarci d’accordo nel sostenere “qui c’è qualcosa che non va” senza però riuscire a concordare circa la diagnosi del problema? A chi non è inoltre capitato di dissentire in modo anche netto da una persona che riteniamo altrettanto o più competente di noi circa l’equilibrio complessivo di una birra in presenza di un difetto che uno dei due ritiene lieve come una piuma e l’altro pesante come un macigno? Se la degustazione fosse una scienza esatta, del resto, non esisterebbero le lunghe, appassionanti e, a volte, estenuanti discussioni che avvengono nei tavoli di giuria dei concorsi birrari a qualunque livello.

Proprio per eliminare ciò che vengono definiti bias di discussione esiste un concorso, il Mondiale de la Bière, a cui ho recentemente preso parte a Rio de Janeiro, in cui ciascun giudice valuta le birre e compila le relative schede da solo, senza alcun dialogo con i colleghi. Inoltre, ad ogni uscita, ciascun giudice riceve le birre in ordine diverso rispetto agli altri, troncando quindi anche la possibilità di confronti ex post, e non vi è alcuna indicazione circa gli stili, che si è chiamati a cercare di individuare e segnalare sulla scheda ma che non hanno un peso determinante nell’assegnazione dei premi. Personalmente ho trovato questo metodo di lavoro molto sfidante e istruttivo per noi giudici, mi è però indubbiamente mancata la componente di confronto, discussione e apprendimento reciproco che si verifica negli altri concorsi.

Già, perché anche quando si è irrimediabilmente in disaccordo con qualcun altro si impara molto, in primis a conoscere quali sono le nostre idiosincrasie e, soprattutto, le soglie di sensibilità e tolleranza ai diversi elementi e composti che si trovano nel bicchiere. Kuaska, ad esempio, ripete spesso che nei concorsi del Campionato Nazionale Homebrewer in cui partecipa come presidente di giuria “se ci sono sei birre in finale, la mia preferita è puntualmente la sesta per tutti gli altri”. Ricordo inoltre una serata con lui al Barbaresco di Legnano dedicata alla degustazione alla cieca di alcune Tripel, in cui molti di noi avevano premiato gli esemplari più “puliti” e precisi penalizzando invece una con alcune asperità che Lorenzo aveva gradito molto, il suo commento era stato: “è normale, io che le bevo da trent’anni ho un’idea un po’ diversa di Tripel”. Un altro episodio emblematico l’ho vissuto al Pils Pride 2015 con l’amico Stefano Ricci: avevamo appena scoperto di avere entrambi nel bicchiere la Svetlevycepni della Pivovar Kout, l’unica Pils boema presenta alla manifestazione, e le nostre valutazioni erano totalmente divergenti. Mentre io la ritenevo una birra molto interessante, malgrado l’indubbia presenza di diacetile, peraltro tollerato in modica quantità nelle Pils ceche a differenza di quelle tedesche ove è verboten, Stefano la valutò quasi imbevibile: evidentemente la stessa quantità di diacetile per me era tollerabile e per lui, notoriamente specializzato nell’individuare il simpatico dichetone vicinale, eccessiva. Da questo e altri confronti ho imparato, ad esempio, di essere piuttosto tollerante al diacetile e molto sensibile, invece, rispetto ad altri difetti come l’acetaldeide e, soprattutto, gli alcoli superiori, che anche in quantità ritenute da altri accettabili mi rendono una birra difficilmente approcciabile. Oltre alle irriducibili differenze tra le soglie di percezione individuali, vi sono però alcune situazioni in cui la valutazione di una birra può condurci in un’impasse e a rischio di errori di valutazione, ecco alcune delle più frequenti e qualche consiglio (gli americani li chiamano judging tips) per evitare le secche.

Diacetile o ricco aroma maltato?
E’ un dilemma che può presentarsi quando nel bicchiere abbiamo una Scotch Ale, una Irish Red Ale o comunque una birra con una buona quantità di malti speciali e una spiccata caramellizzazione dovuta alla loro bollitura. Nel caso di birre realizzate nei due stili sunnominati, inoltre, c’è l’ulteriore complicazione che una ridotta quantità di diacetile è tollerata dai canoni. Come distinguerli? Solitamente il diacetile è più “semplice” e molesto sia all’olfatto che al gusto: il caratteristico aroma burroso, che gli anglosassoni identificano con il butterscotch, una preparazione pasticcera a base di zucchero bruno e burro non in voga alle nostre latitudini, si abbina a una certa sgradevole untuosità al palato, gli aromi e i sapori di malto caramellizzato sono invece più complessi e con note più fini e gradevoli di pasta frolla ben cotta, zucchero di canna aromatico e un tocco di amaro da tostatura in bocca.

Se il DMS gioca a nascondino
In ogni corso di degustazione ci viene insegnato che il dimetilsolfuro, composto solfidrico il cui precursore si trova nei malti (specie il Pils e gli esastici americani) e che viene solitamente eliminato grazie ad una vigorosa bollitura, si accompagna a un caratteristico aroma di mais dolce in scatola. Ciò è vero ma non sempre: a volte mi è capitato di trovarlo associato ad un aroma ancora più stucchevole, come quello di un miele industriale scadente, mentre nelle birre scure l’interazione tra DMS e malti tostati conduce a un sentore di succo di pomodoro o pelati in scatola. A volte, inoltre, il DMS è compresente a composti ad esso chimicamente molto simili e dalla stessa origine come il dietilsolfuro, il dimetildisolfuro o trisolfuro che hanno sentore di cavolo o cipolle cotte: la sensazione generale sarà quella di una birra dalle note sulfuree che potrebbero essere attribuite alla fermentazione anziché al composto presente nei malti. Difficile valutarlo in quest’ultimo caso, anche se al gusto il DMS si associa sovente ad una nota grainy da pop corn avvertibile nell’area centrale del palato.

Birra astringente?
L’astringenza, caratteristica sensazione boccale che si manifesta con una percezione di brusco asciugamento del palato simile a quella che proviamo addentando un frutto acerbo o, esperimento estremo, succhiando una bustina di tè dopo averla usata, è tollerabile a bassi livelli in birre molto luppolate o con massiccio impiego di malti scuri. Una sua rilevante presenza, invece, è sempre un difetto e le sue cause possono essere: eccessiva quantità di luppolo da amaro o una sua utilizzazione superiore a quanto attesa; eccessiva quantità di malti scuri; acqua di brassaggio o di sparging troppo alcalina; presenza di grani d’orzo o di altri cereali in bollitura. Individuare la causa reale di questo problema a volte non è facile. Ci si può aiutare notando la compresenza di altre caratteristiche nel nostro bicchiere: un invadente amaro finale o un violento aroma luppolato ci possono indirizzare verso la prima ipotesi; il chill haze, una rilevante opalescenza o la presenza di particelle proteiche in sospensione ci instradano verso la quarta opzione; una nota alcalina e minerale, sia al naso che in bocca, ci fa propendere per la seconda possibilità; la caratteristica acidità dei malti torrefatti in quantità superiore al desiderabile ci porta infine a scegliere la seconda ipotesi.

Luppolo o lievito?
Quando si è degustatori o giudici alle prime armi, può capitare di non riuscire a individuare la provenienza di un aroma perché alcuni sentori citrici o fruttati maturi (note di ananas, pesca gialla o nettarina) possono provenire sia da alcuni ceppi di lievito, in particolare belgi, che da alcune varietà di luppoli da aroma. Una curiosità che mi è capitato di vivere in prima persona riguarda il Citra, uno dei luppoli più in voga: oltre alle caratteristiche note di buccia di limone e pesca bianca può presentare una componente aromatica dovuta al metantiolo, composto che si manifesta con sentori di ribes nero e Sauvignon quando è a bassa concentrazione ma che produce note catty e addirittura di straccio bagnato e acqua stagnante quando la sua presenza è importante. In una birra solitamente eccellente mi capitò anni fa di trovare proprio un lieve sentore di panno umido, ne attribuii l’origine al lievito belga impiegato per produrla, ma il birraio mi disse invece che la causa era un lotto di Citra non particolarmente soddisfacente.

Acetaldeide, acido lattico o acetico?
A volte, quando non si ha ancora acquisito una buona familiarità con i difetti delle birre, può essere non semplice distinguere nel gusto di una birra ambrata o scura l’acetaldeide da una ridotta presenza di acido lattico o acetico, anche se questi composti hanno origini e caratteristiche molto diverse: mentre lactobacilli e batteri acetici derivano essenzialmente da infezioni (quando non sono appositamente inoculati dal birraio, ovviamente), infatti, l’acetaldeide è presente in tutte le birre perché è prodotta durante la fase di lag dei lieviti. In sostanza, i saccaromyces degradano gli zuccheri del mosto in acido piruvico, questo in acetaldeide e infine in etanolo, eliminando del tutto l’acetaldeide o portandone la concentrazione al di sotto della soglia di percezione. Un po’ come Penelope con la sua tela, il nostro fegato compie poi il lavoro inverso smontando l’etanolo in acetaldeide, quindi in acido piruvico e infine in zuccheri: il classico mal di testa da hangover deriva infatti, oltre che da disidratazione, anche da un eccesso di acetaldeide nel nostro organismo. Se la combinazione tra acetaldeide e malti tostati e scuri può ingannarci al palato, creando una sinergia che può ricordarci la presenza di una modesta acidità lattica o acetica, l’aroma non mente ed è facile sciogliere il dilemma grazie al nostro naso: l’acetaldeide ha un caratteristico sentore di mela acerba o mela Granny Smith che può arrivare a toni sidrosi (da non confondere con il sentore di mela golden matura, dato dall’etil-acetato o di mela rossa, dato all’etil-esanoato, due esteri fermentativi), l’acido acetico ha un caratteristico aroma pungente difficilmente equivocabile mentre l’acido lattico può essere quasi inavvertibile all’olfatto o presentarsi con note che ricordano il latticello delle mozzarelle.