Mamma, Cecco mi tocca! Toccami, Cecco, che mamma non vede!!! Così, secondo un modo di dire tipico di diverse regioni italiane, si usa dipingere l’atteggiamento di chi ufficialmente dichiara di disdegnare qualcosa, ma nei fatti si comporta in modo esattamente opposto. Ecco, può essere questa una delle chiavi di lettura degli attuali orientamenti strategici assunti, negli Stati Uniti, dalla grande (grandissima) industria brassicola rispetto al settore craft. Nel senso che, come vedremo, da un lato le major labels fanno mostra di snobbare l’avversario, dall’altro, invece, ne inseguono le mosse e le sembianze, se non in alcuni casi la stessa proprietà del marchio. Che cosa ci sia alla base di tale duplicità tattica? Di certo, fra altri possibili fattori, l’esistenza di timori, riguardo le potenzialità del competitor, che, a questo punto si sono fatti pressanti.
Partiamo proprio da questo: i rapporti di forza. I dati parlano chiaro: nel 2014, sotto la bandiera a stelle e strisce, hanno aperto i battenti qualcosa come due microbirrifici al giorno; e 1.500 erano quelli, all’inizio di quest’anno, sui blocchi di partenza. Il numero totale dei piccoli impianti è stimato oggi in 3.400 circa (altri 2.000 in procinto di avviare i motori); la Brewer’s Association ha reso noto come, in termini di occupazione del mercato, il movimento abbia sfondato la soglia psicologica della doppia cifra, portandosi a quota 11% in termini di volume venduto, mentre il dato è pari al 19.3% in termini di denaro incamerato. Direte: siamo sempre lontani; le pro- porzioni sono sempre quelle della proverbiale sfida tra Golia e Davide. Il punto è che quest’ultimo cresce a ritmi oggettivamente sorprendenti, e che, comunque, una “fetta” il cui peso si misura in un decimo dell’intera torta è qualcosa che non può essere sottovalutato. E infatti non lo è.
Come reagiscono le macrobreweries? Non solo con la clava del sarcasmo, ma anche con l’arma, ben più efficace del denaro. Semplificando: “consumatori, volete brand artigianali? E noi li compriamo. Così, alla fine, sarà sempre nei nostri forzieri che dirigerete i vostri dollari!”. Una soluzione alla quale i vertici del maxi- trust hanno pensato da tempo, mettendo mano a un’autentica offensiva, condotta a colpi di acquisizioni: assorbimenti diretti di realtà anche (e soprattutto storiche) del rinascimento brassicolo statunitense, o acquisto di aziende operanti nel settore della distribuzione.
Le multinazionali, e da tempo, vanno a caccia di birrifici da comprare. Per organicità d’esposizione, cominciamo da AB InBev che – all’inizio di quest’anno (in anticipo di giusto un paio di settimane, rispetto alla messa in onda dello spot di cui sopra) – ha portato a termine una prima fase di campagna di acquisizioni decisamente sostanziosa. Nell’ordine, sotto il controllo della megaholding intercontinentale sono finite quattro (ex) artisanal griffe del panorama statunitense: Goose Island (Chicago), Blue Point (Patchogue, New York), 10 Barrel (Bend, Oregon) e, ultima in termini di tempo, la Elysian Brewing (Seattle, Stato di Washington). Né si è trattato di una operazione estemporanea; già dal 2013, infatti, era stato messo in cassaforte il 32.2% del pacchetto azionario pertinente alla Craft Brew Alliance, società costituita nel 2008 e composta oggi da cinque marchi, alcuni protagonisti della prima ora dell’American beer renaissance: Redhook Ale Brewery (fondata nel 1981 a Seattle, Washington), Widmer Brothers Brewery (1984, Portland, Oregon), Kona Brewing Company (1994, Kona, Hawaii); completano l’organigramma la Omission Beer (sviluppata all’interno della stessa Craft Alliance nel 2012) e il produttore di sidro Square Mile Cider (il debutto nel 2013). Inoltre, nel catalogo del trust euroamericano figura una gamma come quella della Shock Top, che viene direttamente prodotta ma con un look evidentemente concepito secondo crismi craft. A integrare il quadro, ecco alcune delle operazioni, analoghe, condotte da un’altra supercorazzata, coinquilina e rivale sullo scacchiere statunitense e mondiale, la MillerCoors. La quale – attraverso la divisione Tenth and Blake, costituita nel 2010 apposita – mente per gestire il ramo import e artigianale – controlla anch’essa una varietà di marchi territoriali inizialmente indipendenti, come Blue Moon (che aveva debuttato nel 1995 a Golden, Colorado) o Leinenkugel’s (1867, Chippewa Falls, Wisconsin) già rilevata nel 1988. La stessa MillerCoors ha in listino un’etichetta di propria diretta emanazione (il sito web la descrive come creata dalla Band of Brewers, una squadra di “birrai di talento”), caratterizzata da un design che ammicca chiaramente ai consumatori inclini al “piccolo”: la Third Shift Amber Lager. Non è rimasta a guardare SabMiller che, la scorsa primavera, ha fatto segnare uno dei colpi più clamorosi nell’ambito dell’offensiva economica macro vs micro, mettendo le mani nientemeno che sulla londinese Meantime.
Altro capitolo ancora (sul quale qui ci limitiamo ad aprire una finestra) è quello delle collaborazioni tra craft breweries Usa e grande industria, connazionali o meno che siano. In tal senso, esemplare è la vicenda che riguarda il sodalizio tra la Brooklyn di New York (circa 90mila ettolitri annui, fonte Fox) e la Carlsberg di Copenaghen (123 milioni, fonte interna), protagoniste di attività congiunte in Scandinavia. Dopo aver aperto nel 2014 la New Carnegie Brewery a Stoccolma (Svezia), quest’anno hanno bissato in Norvegia, annunciando la realizzazione di un ulteriore nuovo sito produttivo: teatro delle operazioni, Trondheim, lo stabilimento della , entità familiare indi- pendente fino al 1978, ma dal 2004 passata nell’orbita del colosso europeo. L’impianto sfornerà le etichette della locale e storica gamma Dahls; in più, sarà l’officina per il brassaggio di tutta una nuova serie di ricette ideate con il contributo del fondatore e (ancora) headbrewer della Brooklyn, Garrett Oliver. Un ultimo tassello di questa nostra ricognizione che dà conto di come lo scenario di cui abbiamo dato i contorni generali viva una condizione di diffuso fermento.