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Che cosa rende una birra torbida?

Il processo produttivo birrario può essere considerato come un affascinante puzzle dove ogni tassello rappresenta un particolare momento della produzione ed ognuno di essi gioca un ruolo importante affinché ogni tassello successivo si inserisca senza problemi. Errori o problemi durante le numerose fasi di realizzazioni di una birra e/o scarsa qualità e variabilità delle materie prime possono generare una cascata di eventi tali da inficiare il prodotto finito. Ecco che quindi l’utilizzo di “altri ingredienti” oltre i 4 ben noti e l’aiuto della “chimica” può salvare una cotta evidentemente nata male oppure prevenire la formazione di difetti rinvenibili nel bicchiere. Ma come evidenziato dalle virgolette, l’affermazione ultima non è propriamente corretta, almeno nell’utilizzo della terminologia; la maggior parte dei prodotti (almeno quelli di cui parleremo in questo articolo) sono definibili coadiuvanti tecnologici o coadiuvanti di processo e non ingredienti, ovvero sostanze che aiutano a perseguire un obiettivo tecnologico ma che non lasciano traccia nel prodotto ultimo e senza costituire un rischio per la salute. Ovviamente l’idea che questi prodotti rappresentino la chimica, e quindi assimilabile ad un qualcosa di riprovevole e di “innaturale”, è senz’altro sintomo di una errata visione dell’argomento, che andrebbe rivista e riconsiderata. Anche perché parlare di birra vuol dire parlare di chimica, ammesso che sia ancora fatta di molecole; e se può evitarci di gettarla nella cloaca ben venga.

Uno degli aspetti più dibattuti difatti è la torbidità della birra. In maniera superficiale si potrebbe quest’ultima considerare un “difetto” o quanto meno una caratteristica soltanto estetica. Ovviamente sappiamo bene che la presenza di particelle sospese, di varia natura, può condizionare l’esperienza tattile durante la bevuta (mouthfeel, astringenza) ed anche quella sensoriale (aromi, amaro). E sappiamo altrettanto bene che un prodotto limpido presenta una shelf life ed una stabilità colloidale nel tempo sicuramente migliori rapportato ad uno condizionato da torbidi in sospensione. Il discorso indubbiamente andrebbe affrontato considerando anche gli stili di appartenenza, vedi birre di frumento o le nuove NEIPA, ma in questa sede affronteremo soltanto gli aspetti legati ai fenomeni di intorbidimento e alle sue risoluzioni.

Cause della torbidità
La sedimentazione delle particelle sospese si comporta secondo la legge di Stokes, ossia dipende dalla densità della particella e del mosto/birra, dalla viscosità del mezzo, dal raggio della sfera e dall’accelerazione dovuta alla gravità. Maggiore è la dimensione delle particelle (e quindi la flocculazione) più rapidi sono i tempi di sedimentazione. Pertanto una delle soluzioni consiste ovviamente nell’incremento della dimensione del raggio di tali particelle. L’aggregazione di tali particelle dipende dalla natura delle stesse e del liquido, ma può essere facilitata mediante l’utilizzo di specifici agenti. Comprensibilmente parlare di mosto e di birra vuol dire discutere di due sistemi differenti, caratterizzati da densità diverse (riduzione della concentrazione degli zuccheri e presenza di alcol), pH più basso (precipitazione di alcune proteine per il raggiungimento del punto isoelettrico), dai moti esercitati dai lieviti sospesi durante la fermentazione e da eventuali aggiunte di particelle post fermentazione (frutta, luppolo, etc…). Pertanto potremo trovarci un mosto torbido ma una birra limpida e viceversa. Altra variabile da considerare è la forma e la geometria del tino di fermentazione la quale può indurre o ritardare la flocculazione del lievito.

I componenti che creano torbidità, possono essere suddivisi in due macro gruppi.

Particelle microbiologiche (PM)
In questo gruppo ritroviamo ovviamente gli elementi responsabili della fermentazione alcolica, ovvero le cellule di lievito, ma anche i contaminanti della birra (lieviti e batteri). Ogni ceppo di lievito ha un suo specifico “programma di flocculazione”, geneticamente indotto, il quale può essere facilitato o addirittura anticipato mediante refrigerazione del mosto/birra, oppure ritardato in assenza di alcuni minerali (calcio, etc…), oppure intervenendo sulla cinetica di fermentazione. Generalmente i ceppi commerciali, con le dovute differenze, garantiscono una idonea flocculazione ed agglutinazione nel tempo grazie alla selezione operata dall’uomo nel corso dei secoli. Viceversa i contaminanti (soprattutto i batteri) tendono a rimanere sospesi per molto più tempo e risultano essere spesso restii alle riduzioni di temperatura.

Particelle non microbiologiche (PNM)
Più difficilmente rimovibili rispetto ai microrganismi, esse provengono dalla materia prima (cereali, luppolo), ovvero parliamo in primis di proteine (generalmente associate ai polifenoli) ma anche di lipidi (acidi grassi liberi) e di carboidrati (amido). Visto che solo grosse quantità di amido e di acidi grassi sfuggiti al processo di estrazione possono creare seri problemi di intorbidimento, si può affermare che la quasi totalità di torbidi da particelle non microbiologiche siano da imputare alle proteine ed ai polifenoli. In taluni casi, ed in conseguenza dell’utilizzo di alcune tipologie di frutta, anche le fibre solubili (pectina) possono creare problemi di opacizzazione. Le PNM vengono generalmente suddivise in tre frazioni, in base alle dimensioni delle particelle, ed in base alla carica elettrostatica, entrambi parametri di predizione della sedimentazione. Ovviamente la quantità di particelle PNM nel mosto è fortemente dipendente dai livelli dei precursori nella materia prima (qualità del malto) e dal processo di produzione del mosto (macinazione, estrazione, filtrazione, bollitura). A differenza delle PM le proteine possono aggregarsi col freddo e palesarsi visivamente solo a basse temperature (chill haze), oppure persistere indipendentemente dalle condizioni termiche (permanent haze).