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Contropressione: tecniche e strumenti a disposizione per chi produce in isobarico

Negli ultimi anni, tra gli homebrewer in Italia, sta prendendo sempre più piede il fenomeno delle produzioni in contropressione/isobarico. L’obiettivo, come probabilmente è ormai noto ai più, è quello di ridurre al minimo la solubilizzazione dell’ossigeno nella birra durante le fasi a freddo della produzione, ovvero dall’inizio della fermentazione in poi. Al di là delle – legittime – discussioni su quanto oltre ci si debba spingere in questo senso a livello casalingo, è innegabile il fascino delle sfide che i produttori casalinghi si trovano a dover fronteggiare per ridurre l’ingresso di aria nella birra. La crescita costante degli homebrewer che adottano questo metodo di produzione ha stimolato una costante comparsa di nuove attrezzature e approcci a cui è difficile stare dietro. Alcune tendenze non sono necessariamente nuove per tutti, ma per chi si affaccia al mondo della contropressione/isobarico possono rappresentare delle svolte inaspettate.

Dry hopping e ossigeno

Arriva un momento in cui, dopo aver preso una certa confidenza con i sistemi di produzione in contropressione, ci si rende conto del vero punto debole di questo approccio: il dry hopping, ovvero l’aggiunta del luppolo a fine fermentazione. L’introduzione dei pellet, o peggio ancora dei coni, nel fermentatore – in particolare se la fermentazione è già terminata – porta inevitabilmente all’introduzione di ossigeno nella birra. Limitare questo effetto non è semplice ma esistono alcuni modi, più o meno complicati, per ridurre la quantità di aria che entra nella birra nella fase di dry hopping. Si tratta di rimedi empirici, nel senso che a livello casalingo in genere non si hanno gli strumenti tecnici adatti per misurare quantitativamente l’efficacia di queste pratiche; tuttavia, facendo riferimento al proprio palato e agli assaggi della birra, tutti più o meno concordano sull’utilità di questi approcci nel ridurre la solubilizzazione dell’ossigeno nella birra. Il primo, più semplice da attuare, è fare il dry hopping quando la fermentazione non è ancora completamente terminata, ovvero prima che la birra abbia raggiunto la Final Gravity (FG). Se infatti aggiungiamo il luppolo quando il lievito è ancora in azione, è verosimile che le cellule assorbano – almeno in parte – l’ossigeno che si solubilizza nella birra.

L’ideale sarebbe aggiungere il luppolo durante la fase tumultuosa, quando il lievito è in piena fase di moltiplicazione cellulare, per facilitare l’espulsione dell’aria anche grazie alla spinta dell’anidride carbonica. Purtroppo l’aggiunta di luppolo durante la fermentazione tumultuosa, che spesso viene fatta per favorire la biotrasformazione degli oli essenziali ad opera del lievito, non ha lo stesso impatto organolettico di un’aggiunta a fermentazione finita, quindi non sempre questa soluzione rappresenta il compromesso ideale. Un’altra soluzione, molto praticata anche nei birrifici, consiste nell’insufflare anidride carbonica da una bombola dopo aver aggiunto il luppolo, una volta richiuso il fermentatore (bubbling). Aneddoticamente si dice che uno-due minuti di bubbling siano sufficienti per liberare dall’ossigeno un volume di 15-20 litri di birra. La CO2, pompata a bassa pressione dal fondo del fermentatore, man mano che sale spinge l’ossigeno fuori dalla birra. Sia quello che si è solubilizzato, sia quello entrato nello spazio di testa. Spesso di avvia il bubbling ancor prima di aprire il fermentatore per aggiungere il luppolo, in modo da avere una spinta di anidride carbonica verso l’esterno già quando si apre il coperchio (ovviamente parliamo di pressioni bassissime, altrimenti risulterebbe difficoltoso aprire il fermentatore). Questo metodo dovrebbe essere piuttosto efficace, occorre solo fare attenzione a regolare bene la pressione per non creare eccessiva schiuma nella birra. Se il luppolo è tanto e se la birra contiene molta anidride carbonica (ad esempio se si fermenta in pressione), questo approccio può generare fontane di birra (gushing).

Qualche homebrewer ha tentato un approccio ancora più fantasioso. Se si utilizza infatti un fermentatore in plastica trasparente, tipo il Fermzilla, è possibile chiudere il luppolo in una hop bag insieme a una calamita food grade (es. un’ancoretta per l’agitatore magnetico) e posizionarla nella parte alta del fermentatore, sopra la birra, tenendola fissa con un qualsiasi pezzo di ferro posizionato all’esterno del fermentatore. A fermentazione finita si sgancia l’ancora dall’esterno, senza aprire il fermentatore, facendo cadere la hop bag nella birra. Se da un lato è garantito che questo approccio è a contatto nullo con l’ossigeno – il fermentatore rimane chiuso – dall’altro non è ben chiaro quanto il luppolo possa perdere proprietà organolettiche trovandosi a temperatura ambiente, sotto il flusso diretto di anidride carbonica, durante tutta la fermentazione. Ma è senza dubbio un approccio da provare. Un metodo molto più efficace, ma costoso in termini di attrezzatura, è quello di introdurre il luppolo in un piccolo contenitore a parte, saturare quest’ultimo con anidride carbonica, collegarlo nella parte alta del fermentatore e far cadere il luppolo all’interno. Nei fermentatori inox di fascia alta sono disponibili raccordi ad hoc per gestire questo approccio, ma ovviamente i costi aumentano sensibilmente. Qualcuno ha provato a fare qualcosa di simile con il Fermzilla, inserendo il luppolo nell’ampolla sul fondo del fermentatore per poi farlo risalire nella birra tramite spinta di anidride carbonica, ma la posizione dell’ampolla sul fondo del fermentatore rende questo approccio poco efficace. Altri si sono spinti oltre, mettendo addirittura sottosopra il fermentatore per far scendere il luppolo. Approcci senza dubbio fantasiosi, ma di dubbia praticità. Il metodo più semplice ed efficace, probabilmente, rimane quello del bubbling di anidride carbonica dal fondo del fermentatore. In attesa che qualcuno, produttore di attrezzatura o homebrewer, se ne inventi un’altra.

 

Fusti usa e getta da 3 litri

Quando si passa alla contropressione, si finisce inevitabilmente col ridurre man mano la birra che finisce in bottiglia. Con il tempo si realizza che il trasferimento nei fusti è troppo comodo per perdere tempo a sanitizzare e riempire le bottiglie, quando con un’unica operazione da poco più di una decina di minuti si riempie un fusto da cui si può tranquillamente spillare la birra come quando si passa la serata al bancone del pub.

Il problema dei fusti però è che sono mediamente troppo grandi per essere svuotati a suon di pinte bevute in tempi ragionevoli, specialmente se si vive da soli o se in famiglia il consumo di birra non è sostenuto. Esistono i fusti in acciaio inox da 5 litri, ma sono piuttosto costosi e comunque parliamo di almeno 10-12 pinte di birra (dipende dal tipo di bicchiere) che non sono proprio poche da consumare da soli, specialmente considerando che magari ci si stufa di bere la stessa birra per dieci o più giorni di seguito. Senza considerare che la birra, una volta che il livello nel fusto inizia a scendere, perde di freschezza con il passare dei giorni. Qualche rivenditore ha in catalogo anche fustini inox da 3 litri, ma il costo in relazione al volume è piuttosto elevato, per passare un’intera cotta in fusto servirebbe un investimento piuttosto oneroso. Negli ultimi tempi si è palesata una nuova soluzione al dilemma del confezionamento casalingo: i fustini MiniKeg Talos da 3 litri. Si tratta di piccoli fustini in plastica con sacca interna, del tutto simili ai Polykeg usa e getta utilizzati da molti birrifici, che permettono di spillare la birra tramite spinta di un qualsiasi gas, anche aria. Questo perché la birra, contenuta in una sacca interna, non viene mai a contatto con il gas che la spinge fuori dal fusto. È un po’ come spingere il dentifricio fuori dal tubetto, solo che al posto delle dita che fanno pressione c’è l’aria, azionata tramite una pompetta installata sull’apposito spillatore costruito su misura per questi fustini. Dato che la birra non viene a contatto né con l’aria né con l’anidride carbonica durante la spillatura, le caratteristiche organolettiche del prodotto si conservano idealmente per un tempo molto lungo, anche se la spillatura è parziale. Il costo del fustino è contenuto, inoltre arriva a casa già sanitizzato e pronto per l’utilizzo, il che facilita moltissimo le operazioni di infustamento. Tecnicamente si tratta di fustini usa e getta, ma con un po’ di ingegno si possono pulire, sanificare e riutilizzare. Sul canale YouTube dell’homebrewer Rovidbeer sono disponibili informazioni di dettaglio sul riempimento e sull’utilizzo di questi comodi e innovativi fustini.

 

Confezionamento in lattina

Negli ultimi anni le lattine hanno conquistato sostanziali quote di gradimento tra i consumatori di birra artigianale. Associate inizialmente alle birre industriali, sono ormai diventate un simbolo delle ultime tendenze craft: dalle luppolature estreme fino alle lager tradizionali, sempre più birrifici scelgono questo contenitore per confezionare e distribuire le proprie birre. I vantaggi per i birrifici sono molteplici: da quelli più evidenti nel trasporto, grazie alla resistenza maggiore delle lattine agli urti (quando sono piene, da vuote si deformano invece con estrema facilità), allo stoccaggio più efficace rispetto alle bottiglie di vetro; ai vantaggi meno evidenti nel breve periodo come la riduzione dell’ingresso della luce, decisamente inferiore anche rispetto alle bottiglie in vetro marrone. Tuttavia, al di là di questi vantaggi concreti, spesso si usano le lattine perché permettono di disegnare etichette più efficaci a livello grafico, mettendo a disposizione l’intera superficie cilindrica esterna al contenitore.

A livello comunicativo, l’aspetto esteriore può fare la differenza per il  consumatore quando si trova davanti a un frigorifero pieno di bottiglie e lattine. A livello casalingo le lattine non sono ancora molto diffuse, ma diversi homebrewer le stanno sperimentando negli ultimi tempi. L’interesse verso questo formato, insolito per i produttori casalinghi, sta decisamente crescendo, tanto che anche nei concorsi per homebrewer iniziano ad affacciarsi le prime birre in lattina. In questo contesto la lattina ha il grande vantaggio di rendere molto più sicura la spedizione della birra al concorso, sostituendo le fragili bottiglie che non di rado vanno in pezzi durante il trasporto. La principale difficoltà nell’utilizzo delle lattine a livello casalingo è senza dubbio la lattinatrice, ovvero la macchina che sigilla la birra all’interno della lattina. Si tratta infatti di un macchinario piuttosto ingombrante – decisamente più ingombrante rispetto alla classica tappatrice – e ad oggi ancora piuttosto costoso. I prezzi si stanno tuttavia riducendo sempre di più, rendendo questo formato accessibile anche a livello casalingo. Le lattine presentano qualche difficoltà in più nel riempimento rispetto alle bottiglie. Se queste ultime si possono riempire con relativa semplicità con sistemi in contropressione, rendendo relativamente fluido il passaggio in bottiglia di birra già carbonata, con le lattine questa operazione si complica leggermente.

Generalmente infatti non si utilizzano sistemi in contropressione per riempire le lattine: la birra viene trasferita senza creare pressione all’interno della lattina, ma semplicemente lasciandola fluire come se si spillasse la birra dal rubinetto. Sebbene si possa tecnicamente mettere in pressione la lattina prima di trasferire la birra, come si fa con le bottiglie, il fatto che non si riesca a vedere la birra fluire all’interno e la delicatezza strutturale della lattina rendono questo approccio poco pratico. Trasferire senza contropressione birra già carbonata favorisce la formazione di schiuma a causa della differenza improvvisa di pressione tra il beccuccio della pistola imbottigliatrice e l’interno della lattina. Questo richiede un’attenta calibrazione e gestione del sistema di trasferimento della birra nella lattina, non sempre semplicissimo. Si utilizza spesso un freno che rallenta il flusso della birra (simile a quello montato sui rubinetti di spillatura) insieme a un sistema di raffreddamento che mantiene la birra a una temperatura il più bassa possibile fino al passaggio nella lattina. In casa tutto ciò non è semplicissimo, ma con un po’ di pratica si riesce a gestire. Nella lattina non si può applicare il vuoto prima del riempimento, per cui ci si limita a spingere fuori l’aria tramite flusso di anidride carbonica dal basso della lattina prima di riempirla con la birra (sempre dal basso). La forma cilindrica rende più semplice e uniforme la tappatura sulla schiuma rispetto al collo della bottiglia, limitando fortemente l’ossigeno che rimane nella lattina. Insomma, i vantaggi a livello casalingo non sono poi così evidenti rispetto alla bottiglie, ma vuoi mettere stappare una lattina con birra autoprodotta?

 

Fusti grandi per la fermentazione

Nell’eterna ricerca della miglior soluzione che equilibri costi e benefici, gli homebrewer si stanno ingegnando anche sul fronte dei contenitori per le fermentazioni in pressione. Se da un lato spopolano soluzioni economiche come Fermzilla e AllRounder, il fatto che siano costruiti in plastica fa storcere il naso a molti. I produttori casalinghi, si sa, sono attratti dall’acciaio inox, per diversi motivi: è riutilizzabile praticamente all’infinito, si pulisce e si sanitizza facilmente – anche con prodotti piuttosto aggressivi ed efficaci – e poi è bello. Luccica.

Nessun birrificio utilizza fermentatori in plastica (qualche foto mi è capitata di vederla ma parliamo di birrifici piccolissimi dell’Europa ) e l’homebrewer non vuole essere da meno. Inoltre, la plastica del Fermzilla ha una scadenza e deve essere rimpiazzata dopo circa un anno di utilizzo. Niente di drammatico, per carità, i costi fortunatamente sono contenuti, ma è pur sempre una scocciatura. A livello casalingo esistono fermentatori in inox troncoconici che reggono la pressione (isobarici, detti anche unitank), anche per volumi ridotti (intorno ai 30 litri) ma il costo è davvero alto. Per questa ragione molti homebrewer ripiegano sui fusti, quasi sempre i jolly keg (detti anche Corny Keg) per via dell’imboccatura larga che permette un’agevole pulizia. Come soluzione per fermentare non sono affatto male: hanno tutti i vantaggi dell’inox, sono in grado di reggere pressioni anche molto alte, hanno un costo contenuto. Lo svantaggio è che il formato più grande in cui si trovano in genere è di 19 litri. Considerando la schiuma che si produce durante la fermentazione, non si riescono a fermentare più di 15 litri all’interno del keg. Un volume che per molti homebrewer, specialmente i gruppi di amici che producono insieme, è troppo modesto. Prendendo spunto, come spesso accade, dal mondo americano, dove i Ball Lock Torpedo Keg sono piuttosto diffusi, diversi produttori casalinghi stanno iniziando a modificare fusti più grandi per adattarli allo scopo. Partendo da fusti inox in acciaio per servire la birra da 20 ma anche 30 litri, si taglia la testa di ingresso della birra e la si rimpiazza con un disco inox su cui è si possono saldare i classici allacci Ball Lock dei Jolly Keg. Non è una lavorazione che può gestire chiunque, ma credo che nei prossimi mesi se ne troveranno sempre di più in giro, lavorati da chi ha praticità nella gestione di saldature in inox. Già se ne vedono alcuni prodotti della Kegland, venduti con il nome commerciale di Kegmenter (da keg che significa fusto). A mio avviso si tratta di soluzioni economicamente sostenibili anche in casa, di buona qualità e ottima resa. Certo, non è un fermentatore troncoconico isobarico, ma costa un decimo ed è piuttosto funzionale. Potete trovarne un esempio pratico sul canale YouTube dell’homebrewer Project Zero, cercando Kegmenter tra i video.