Come valorizzare al meglio il luppolo in produzione
Un gesto apparentemente semplice, quello di lanciare una manciata di luppoli nel pentolone o nel fermentatore: basta scegliere il luppolo, pesarlo, calcolare il rilascio di IBU se l’aggiunta è a caldo, e il gioco è fatto. Tuttavia, le variabili da tenere in considerazione sono molteplici, vanno ben oltre la singola varietà di luppolo e il numeretto che rappresenta le IBU. Ancora oggi, molti produttori casalinghi restano ancorati a vecchie convinzioni, senza tenere conto delle tantissime opportunità che si celano dietro un ingrediente dalle mille sfaccettature, per tanti versi non ancora esplorate. Ogni luppolo fa storia a sé, ogni varietà – ma anche raccolti diversi della stessa varietà – hanno caratteristiche proprie, uniche, non sempre facilmente gestibili al primo esperimento. Se le macro classi di composti del luppolo che influiscono sul profilo aromatico sono principalmente tre – idrocarburi, idrocarburi ossigenati e composti dello zolfo –, le combinazioni possibili delle centinaia di sostanze che fanno parte di questi tre gruppi possono generare una vastissima combinazione di aromi e sapori. Da un lato è chiaramente impossibile – e, lasciatemelo dire, non necessario – conoscere il nome di ogni composto e le sue caratteristiche aromatiche, dall’altra è importante superare i vecchi schemi mentali che ci hanno insegnato metodi e approcci rigidi, legati a tempi e quantità piuttosto che a varietà e interazioni tra gli ingredienti. È importante acquisire consapevolezza e lasciare spazio alle sperimentazioni, uscendo dai soliti compartimenti stagni e da dogmi assoluti. Il mondo è cambiato, o meglio: la conoscenza del mondo è cambiata, è bene sfruttarla – senza per questo trasformarsi necessariamente in tecnici – per ottenere il meglio da questo meraviglioso, poliedrico e spesso blasonato ingrediente.
Luppolo in coni vs luppolo in pellet
Il luppolo in coni è prodotto partendo dall’infiorescenza della pianta che viene raccolta, privata dell’umidità e messa sotto vuoto. Si conserva piuttosto bene se mantenuto sotto vuoto (o comunque in un contenitore privo di ossigeno) e al freddo. Il luppolo in pellet subisce invece un processo di lavorazione più invasivo: i coni vengono pigiati, sminuzzati e riassemblati nella forma di piccoli cilindri. Il processo deve avvenire in un ambiente controllato, il più possibile privo di ossigeno e a bassa temperatura, per ridurre al minimo l’ossidazione dei composti presenti all’interno del cono, esposti all’ambiente esterno a causa dello sminuzzamento. I due formati, coni e pellet, hanno ovviamente rese differenti per via della diversa conformazione. Sebbene l’intuito spingerebbe verso l’utilizzo dei coni, meno lavorati e più vicini al cono fresco, nella pratica – soprattutto quella casalinga – devono essere fare diverse considerazioni al riguardo. Sebbene alcuni birrifici abbiano fatto dell’utilizzo di solo luppolo in coni la propria bandiera, non esistono prove inconfutabili che i coni essiccati diano vita a un profilo organolettico migliore rispetto ai pellet. Anzi, molto spesso capita il contrario, in particolare in ambito casalingo, in quanto non si riesce sempre ad avere accesso ai migliori raccolti. I luppoli in pellet presentano invece diversi vantaggi. In primo luogo sono meno sensibili all’ossidazione quando vengono conservati: la loro forma geometrica rende molto più difficile la penetrazione dell’ossigeno all’interno del pellet. Il cono essiccato rimane invece più esposto all’aria, anche quando viene messo sotto vuoto, per via della forma irregolare. Inoltre, quando i coni vengono inseriti nel fermentatore durante la fase di dry hopping, tendono a portare in soluzione una maggiore quantità di ossigeno, sempre per via della loro forma che favorisce la formazione di sacche di aria all’interno dei coni. I coni tendono anche a galleggiare sul mosto, il che può favorire la proliferazione di contaminazioni. Un altro aspetto importante da considerare è che i pellet sono generalmente assemblati da raccolti diversi, in modo da garantire una qualità omogenea. Nel formato in coni questo non accade, il che rende difficile mantenere una costanza produttiva nella resa aromatica di una certa varietà. Infine, i pellet sono più semplici da pesare e maneggiare, oltre a garantire una maggiore estrazione di oli e resine sia durante la bollitura che nel dry hopping, riducendo la quantità necessaria per ottenere gli stessi risultati. Il lato negativo dei pellet è la loro capacità innata di intasare i filtri: la polvere di pellet può compattarsi sul fondo della pentola di bollitura, nel fermentatore o sul fondo del keg, a volte bloccando totalmente il flusso della birra. Possono dare problemi anche con scambiatori di calore, intasandoli. L’utilizzo di hop bag non lo consiglio, in quanto non efficace sui pellet. L’hop spider metallico in bollitura può essere una buona soluzione, ma bisogna essere consapevoli che riduce l’estrazione di oli (aromi) e resine (amaro). I problemi di intasamento si possono risolvere con filtri appositi (i più efficaci sono quelli a maglia fina in rete metallica a forma di palloncino, che si allacciano al rubinetto). Chi usa la serpentina per raffreddare può sifonare il mosto dall’alto a fine bollitura; nel fermentatore o nel keg, si può sifonare o usare una sfera di acciaio collegata a un tubo di silicone per pescare sempre dall’alto, una volta terminato l’abbattimento di temperatura che porterà tutti i pellet sul fondo nel giro di un paio di giorni. Per me non c’è storia: per l’utilizzo casalingo i pellet battono i coni su tutti i fronti.
I luppoli in bollitura
Durante la bollitura il luppolo viene sottoposto ad alte temperature, il che ha un duplice effetto: da un lato il calore stimola la conversione degli alfa-acidi in alfa-acidi isomerizzati, il che li rende leggermente polari e maggiormente solubili nel mosto, conferendo amaro alla birra; dall’altro, il calore favorisce la solubilizzazione degli oli essenziali nel mosto, che però evaporano velocemente a causa della temperatura e dei moti vigorosi scatenati dalla bollitura. Questi due fenomeni hanno magnitudine contraria: più tempo il luppolo passa nel mosto, più amaro viene estratto, meno sostanze aromatiche volatili rimangono nella birra. Questo ha portato, negli anni, alla costruzione di un modello piuttosto spartano che divide le aggiunte in tre grandi gruppi: quelle da amaro, inserite all’inizio della bollitura – o comunque nelle fasi iniziali – in modo da massimizzare l’estrazione dell’amaro; quelle da aroma, nelle fasi finali, in genere da 15 minuti in poi o addirittura a fiamma spenta, per favorire la solubilizzazione dei composti aromatici stimolata dal calore, limitandone al tempo stesso l’evaporazione; e quelle cosiddette da “flavour”, termine meno chiaro e immediato, con il quale in genere si intendono quei sentori chi si avvertono nel retrolfatto quando la birra passa nel cavo orale. In pratica, questa suddivisione è guidata dalla solubilità delle sostanze aromatiche che i luppoli rilasciano nel mosto. Quale sia l’esatto intervallo temporale della gettata intermedia, quella da flavour, è tema discusso e dibattuto. Per molti, ad esempio, una aggiunta di luppolo a 30 minuti rappresenta solo uno spreco di materia prima: non apporta aromi volatili, che evaporerebbero durante i successivi 30 minuti di bollitura, mentre l’estrazione di amaro a parità di grammi di luppolo aggiunti è decisamente minore rispetto ad una aggiunta a inizio bollitura. Come afferma Randy Mosher nel suo libro “Mastering Homebrew”, aggiunte continuative durante la bollitura sono solo un bel modo di fare marketing e raccontare una birra (si pensi alla 90 minute IPA di Sam Calagione del birrificio americano Dogfish Head, che aggiunge luppolo per l’intera durata della bollitura). Raggruppare le gettate durante la bollitura riduce anche gli errori di pesatura ed evita di dover stare davanti al pentolone. Esiste tuttavia una elemento interessante da considerare quando si sceglie quale luppolo utilizzare per l’amaro. Dando per assodato che la bontà e morbidezza dell’amaro non dipenda dal tipo di luppolo utilizzato (il famoso Chinook dall’amaro sgraziato è abbastanza una leggenda), è curioso notare come alcune ricerche hanno mostrato che le aggiunte nelle fasi iniziali della bollitura possono avere invece altri effetti oltre all’isomerizzazione degli alfa acidi. Scott Janish, nel suo libro “The New IPA”, evidenzia in particolare un effetto a mio avviso molto interessante. La bollitura, grazie al suo moto continuo, favorisce l’ossidazione di alcuni idrocarburi (i sesquiterpeni, responsabili dell’aroma “spicy”, presente soprattutto nei luppoli “nobili”) producendo i cosiddetti “idrocarburi ossigenati”. Questi ultimi, al contrario dei sesquiterpeni non ossigenati, sarebbero solubili nel mosto. L’ossigenazione li rende inoltre meno volatili, riducendone l’evaporazione durante la bollitura. Cosa significa questo? Che usando in amaro un luppolo ricco di sesquiterpeni (ad esempio uno dei luppoli continentali come Hallertau o Perle, ma anche inglesi come Fuggle o East Kent Goldings) si favorisce la liberazione di aromi terrosi/speziati, tipici ad esempio del profilo delle bitter (terrosi) e delle Pilsner (speziato da luppolo nobile). Sostituire quindi un Hallertau in amaro con un Target, più efficiente nell’amaricazione perché con maggiore percentuale di alfa acidi, ma meno ricco di terpeni, non produrrebbe lo stesso risultato in aroma, anche se l’aggiunta è a inizio bollitura. Provare per credere.
Dry hopping o hop-stand/whirpool hopping?
Come direbbe qualcuno, la domanda è malposta. Ritengo infatti sia fuorviante mettere in contrasto queste due tecniche di luppolatura, con le quali si ottengono risultati nettamente diversi. L’approccio non dovrebbe essere infatti di sostituire l’una con l’altra, ma piuttosto chiedersi quale contributo apporta l’una o l’altra tecnica. Il dry hopping, conosciuto anche tra i produttori casalinghi in erba, consiste nell’aggiunta di luppolo quando il mosto è freddo (sostanzialmente dopo il raffreddamento del mosto a fine bollitura). Tradizionalmente le aggiunte in dry hopping si fanno dopo la fermentazione, prima dell’abbattimento finale di temperatura (cold crash), ma è possibile anche aggiungere luppolo durante la fermentazione o durante il cold crash stesso. La seconda tecnica, ovvero la luppolatura in hop-stand/whirpool, prevede l’aggiunta di luppolo dopo la bollitura (la cosiddetta aggiunta “a fiamma spenta”) quando il mosto è ancora caldo. In genere si riduce la temperatura del mosto a 75°C prima di aggiungere il luppolo, per rallentare il più possibile l’isomerizzazione degli alfa acidi e l’estrazione di amaro. Con l’hop-stand si butta il luppolo nel mosto e si attende (in genere 20-30 minuti), mentre con il whirpool hopping si aggiunge il luppolo durante la fase di whirpool. Si tratta in entrambi i casi di aggiunte a mosto caldo. Il primo elemento che differenzia i due approcci è appunto la temperatura del mosto. Il calore favorisce la solubilizzazione di alcune tipologie di composti, in particolare quelli che producono aromi floreali/fruttati. I terpeni, responsabili degli aromi speziati/terrosi/resinosi, vengono invece estratti in quantità minore a caldo per il ridotto tempo di contatto (parliamo di 20-30 minuti, contro i 2-3 giorni del dry hopping). I terpeni, inoltre, essendo poco solubili, tendono a perdersi durante il trasferimento nel fermentatore e soprattutto durante la fermentazione, a causa del lievito che li trascina sul fondo. Siamo quindi di fronte a un primo, importante elemento di differenziazione: il dry hopping tende a spingere sulla dorsale resinosa/speziata/balsamica, la luppolatura a caldo a fine bollitura esalta invece le componenti floreali/fruttate. Due elementi non esclusivi, che possono essere utilizzati in tandem per esaltare l’apporto aromatico del luppolo. Un ulteriore elemento da considerare è quello della biotrasformazione, ovvero la trasformazione di alcuni composti aromatici indotta dalla fermentazione. È chiaro che le aggiunte in dry hopping tradizionali post-fermentazione non possono beneficiare di questo passaggio, che avviene solo in presenza di lievito attivo. La biotrasformazione può essere di due tipologie. Quella più comune, misurata sperimentalmente ma non chiara nelle dinamiche, induce la trasformazione di alcuni aromi a base floreale (ad esempio il geraniolo) in altri a base agrumata (es. il citronellolo). Questo induce un boost nell’aroma agrumato, tipico ad esempio delle luppolature con Citra in hop-stand, luppolo ricco di geraniolo. L’altra biotrasformazione riguarda i glicosidi, ovvero composti il cui potenziale aromatico è “bloccato” da una molecola di zucchero legata alla parte aromatica della molecola. Durante la fermentazione, il lievito produce enzimi che liberano la molecola di zucchero rendendo il composto volatile e quindi aromatico. Non tutti i lieviti sono in grado di produrre questo enzima in quantità significative, ma alcuni, come ad esempio i lieviti tipicamente usati nella fermentazione delle NEIPA ma anche alcuni ceppi di Brettanomyces, sono in grado di dare un boost all’aroma luppolato proprio grazie a questo fenomeno. Ovviamente le variabili in gioco sono molteplici: la tipologia e la quantità di luppolo, il ceppo di lievito, il vigore della fermentazione solo per citare le più ovvie. Bisogna sperimentare, ma l’importante è non vedere queste due tecniche di luppolatura come ridondanti: l’una non sostituisce l’altra, tutto sta nel capire cosa si vuole ottenere.